Un memorandum per quegli artisti contemporanei che dissacrano e credono di provocare con il brutto e l’inutile.


Nel 2009 papa Benedetto XVI incontrò in Vaticano gli artisti in un rinnovato dialogo tra Chiesa e Arte, ma già il Giubileo 2000 fu propulsore di un riavvicinamento della Chiesa con l’arte – e così Paolo VI con il Concilio Vaticano II – nella proposta agli artisti come un percorso “per ritemprare le motivazioni spirituali che hanno fatto grande l’arte di ispirazione cristiana … un momento di affrancamento spirituale e di impegno ecclesiale per ritrovare il parametro interiore della propria arte … dando alla bellezza delle opere il valore di segno della progressiva ricapitolazione in Cristo di tutte le cose” per arricchire l’universalità della Chiesa con “il colore dei popoli del mondo nei loro molteplici carismi artistici e spirituali”.
All’apertura del Giubileo degli artisti, nella basilica vaticana, il cardinale Roger Etchegaray, invitò i quasi quattromila presenti a portare avanti l’opera creatrice del Signore scoprendo, nel profondo di sé, i tratti e la bellezza del Dio incarnato, Cristo, attraverso l’icona della Passione e della Croce. Il cardinale si è così espresso: “Più sarete vicini a Dio, e più aspirerete voi stessi il suo soffio creatore, più soffierete voi pure sulle ceneri l’incandescenza e la singolarità della vita a uomini che non sanno più che fabbricare il mondo in serie e senza calore”. Al termine del rito, Giovanni Paolo II rivolse loro un discorso ispirato ai temi della sua Lettera agli artisti del 4 aprile 1999 riaffermando la “feconda alleanza tra Chiesa ed arte”, e ricordando che “se si è capaci di scorgere nelle molteplici manifestazioni del bello un raggio della bellezza suprema, allora l’arte diventa una via verso Dio, e spinge l’artista a coniugare il suo talento creativo con l’impegno di una vita sempre più conforme alla legge divina … È allora che la nostra umanità si libra in alto, in un’esperienza di libertà, e direi d’infinito, come quella che ancora Michelangelo ci ispira nella cupola che insieme sovrasta e corona questo tempio”.
Padre Marko Ivan Rupnik, artista e teologo, afferma che “Giovanni Paolo II, nella lettera scritta in occasione del Giubileo degli artisti, ha aperto un capitolo importante: quello della cura spirituale degli artisti. È un problema diverso da quello dell’attenzione della Chiesa per l’arte. Se gli artisti non hanno un’esperienza della salvezza, come possono annunciare un Cristo che ama e salva gli uomini? Recentemente ho avuto occasione di guardare una Via Crucis degli anni ‘60, che raffigura un corpo di Cristo totalmente corrotto, svuotato, quasi putrefatto ormai. Bisogna stare attenti, perché Cristo non è stato vinto dal male. Ci sono dei contenuti della nostra fede che non si possono eludere nella creazione artistica. Temo l’antropocentrismo radicale che arriva a un capolinea in cui Cristo è semplicemente proiezione ed espressione di un uomo che non ce la fa più, come temo d’altra parte un idealismo spiritualizzante che non c’entra niente con la vita: Cristo è vero Dio e vero uomo”.


Si può rimanere incantati nel guardare un’opera d’arte e a cospetto dell’arte sacra ancora di più, perché chi ha fede intuisce che c’è il mistero dell’intervento di Dio. In una identità e finalità religiosa ci si sente parte di una sollecitazione tesa a testimoniare la religiosità di una comunità cristiana attraverso la costituzione di un patrimonio artistico culturale: in cattedrali, chiese, monasteri, abbazie. Ma ritorna un nostro dubbio: queste opere d’arte sono un fatto museale oppure attraverso l’arte possiamo arrivare a Dio?
Nelle immagini del mondo, Michelangelo ha scorto la visione di Dio: egli ha, per così dire, visto con lo sguardo creatore di Dio e, attraverso questo sguardo, ha riportato su muro per mezzo di audaci affreschi, la visione originale dalla quale deriva ogni realtà, ha scritto l’ancora cardinale Joseph Ratzinger. Un tema, dunque, che sempre dona stupore, attraverso “un cammino per diventare vedenti: per imparare da Dio a vedere”. Urge, dunque, riaffermare quanto diceva Paolo VI quando ricordava agli artisti: “… voi sapete conservare a questo mondo la sua ineffabilità, il senso della trascendenza, il suo alone di mistero”. Non solo. Bisogna riflettere sull’invito che Giovanni Paolo II ha rivolto alla Chiesa “ad assumersi anche il ministero di aiutare l’uomo contemporaneo a ritrovare lo stupore religioso davanti al fascino della bellezza e della sapienza che si sprigiona da quanto ci ha consegnato la storia”.
Così l’esperienza estetica acquisisce e mette a fuoco il percorso culturale che anima il linguaggio religioso, riuscendo ad organizzare luoghi che sono città della carità, che aprono le braccia a una nuova primavera. Ed è indubbio che luoghi di fede e d’arte danno sostanza alla definizione di cultura data da Giovanni Paolo II: “…ciò attraverso cui l’uomo in quanto uomo diventa più uomo”. Luoghi che ispirano intense emozioni, che hanno una ragione in più per essere o diventare luoghi frequentati con un approccio diverso, perché qui c’è la possibilità di constatare i diversi modi in cui la fede cristiana ha descritto la bellezza. Quasi a ritornare all’arte sacra come comunicazione, cioè a quella che una volta era chiamata la Bibbia dei poveri, talmente attualizzata che san Gregorio Magno arrivava ad affermare: “Ciò che lo scritto ottiene a chi legge, la pittura fornisce agli analfabeti che la guardano”.
Nella “Lumen Gentium” leggiamo: “(…) Le belle arti, per loro natura, hanno relazione con l’infinita bellezza divina che deve essere in qualche modo espressa dalle opere dell’uomo, e sono tanto più orientate a Dio e all’incremento della sua lode e della sua gloria, in quanto nessun altro fine è stato loro assegnato se non quello di contribuire il più efficacemente possibile, con le loro opere, a indirizzare religiosamente le menti degli uomini a Dio”.
Arte che in tutte le sue forme è nel mondo in netta prevalenza religiosa. L’Italia da sola dispone dell’85% del patrimonio artistico e culturale europeo, e la maggior parte di questo patrimonio attiene al religioso e appartiene in gran parte alla Chiesa. Qualcosa come trentamila chiese tutelate, mille e cinquecento santuari, circa mille musei diocesani, monasteri, abbazie e conventi di particolare richiamo artistico e storico oltre che di fede e musei a carattere religioso anche con collezioni di arte sacra contemporanea. Il totale dei luoghi di culto ufficialmente registrati ammonta a 2.058 e il primato di regione con più alta densità spetta alla Lombardia con 284 edifici e a seguire il Lazio (195), il Piemonte (184), la Sicilia (161), l’Emilia Romagna (141), la Liguria (131), la Campania (125) e infine Toscana, Puglia e Marche.
La cultura, allora, occupa un posto centrale nell’interesse della Chiesa verso gli uomini. In essa la Chiesa vede plasmarsi la singolare identità della persona. Qualsiasi cultura è uno sforzo di riflessione sul mistero del mondo e in particolare dell’uomo: è un modo di dare espressione alla dimensione trascendente della vita umana. Nella sua autenticità, quindi, ogni cultura partecipa all’inviolabilità della persona umana ed ottiene da essa il fondamento della sua dignità e la norma con cui essere considerata.


L’uomo – e non sembri un paradosso – si trova di fronte all’arte spesso inconsapevolmente, pur nel compiere una scelta autonoma, perché coercizzato da elementi complessi, spesso contraddittori. Le proposte sono allettanti – come le cosiddette “grandi mostre” – ma spesso nulla di più. Le visite cedono ben poco spazio al “comprendere” mentre ne lasciano troppo al “vedere”. Con gli occhi e non con il cuore. Non solo. Da una parte si va verso culture con rilevanze storico-artistiche, con possibilità di sviluppare relazioni, dall’altra si propongono modelli che rischiano una riduzione materialistica di qualsiasi risorsa. Come il notare solo l’opulenza di uno stile architettonico o di ciò che è conservato nelle chiese, nei monasteri e nei musei, senza dare un significato culturale, spunti di riflessione su un’opera d’arte sacra che esprime un messaggio religioso da far cogliere con riferimento all’evento cristiano, in una curiosità che diventa profana.
Facciamo parte di un popolo che nella sua maggioranza si dichiara credente, crede in Dio ma non conosce la religione. Abramo, Mosè, la storia di Giuseppe, molti l’hanno appresa sommariamente, da nuovi e vecchi film, così il riferimento a una parabola spesso cade nel vuoto e alla domanda sul numero dei vangeli o sui nomi degli evangelisti spesso si resta muti. Ecco, potrà sembrare provocatorio, ma questa perdita delle radici religiose potrebbe essere recuperata proprio dall’arte, come una nuova “Biblia pauperum”, ad uso e consumo delle nuove generazioni che attraverso la conoscenza dell’arte potranno trovare una nuova genesi, allargando i confini a valori comuni come l’esigenza di un contatto spirituale e la necessità della cultura che aiuta ad andare alla radice dell’essere uomini, perché l’arte contribuisce a farci capire ogni civiltà, la storia e i costumi, perché anche noi oggi facciamo uso di una “Biblia pauperum” là dove interpretiamo i “segni” del II, III e IV secolo, e lo facciamo attraverso la “lettura” delle pietre, delle epigrafi catacombali, sui rilievi dei sarcofagi, sulle pareti delle catacombe, sui pavimenti a mosaico delle prime chiese.
Nel contesto di secolarizzazione, la tendenza a svuotare le religioni della loro efficacia, a considerarle con sufficienza e a tenerle in un ambito di rappresentazione e non di trasformazione della persona, divulgando una sorta d’incultura religiosa che nel vivere si appropria e spande un relativismo storico, si tratta di ridare all’uomo europeo, attraverso l’arte, le sue radici, le chiavi di comprensione del suo passato, della sua memoria, della sua identità. Ammirando la bellezza delle opere d’arte e conoscerne i significati è eliminare la superficialità, la banalità, il non saper ascoltare. Non è facile e l’esplica benissimo la poetessa ebrea Nelly Sachs – premio Nobel per la letteratura nel 1966 – in questi versi: “Se i profeti irrompessero per le porte della notte / incidendo ferite di parole nei campi della consuetudine / se i profeti irrompessero per le porte della notte / e cercassero un orecchio come patria / orecchio degli uomini ostruito di ortiche / sapresti tu ascoltare?”.
Se noi andiamo nei Paesi dell’Europa orientale, senza approfondire cos’è stato il muro di Berlino, senza conoscere lo straordinario cambiamento subito dalle popolazioni della Polonia, della Lituania, della Cecoslovacchia oggi divisa e dell’Ungheria, non possiamo capirne l’arte. Se noi andiamo in viaggio senza conoscere la storia dei luoghi, le vicissitudini vissute nei secoli, molto di quel “vedere” sarà privo del cuore e dell’anima. Cosa sarebbe Gerusalemme senza le vicende storiche che s’incrociano con quelle delle grandi religioni monoteiste, o Istanbul, nei panorami più belli d’Oriente, senza cogliere i segni della Parola di Cristo attraverso la testimonianza e la predicazione di Paolo, o il tuffarci nel passato a Harran o immergerci nel silenzio dell’Ararat o a dorso di mulo in Cappadocia tra chiese rupestri; o a Damasco in Siria o nella terra dei maroniti e dei melchiti, di Tiro e Sidone in Libano, senza ricordare gli avvenimenti che sono alla radice di una comune cultura; così le Metéore in Grecia, o in Egitto nel deserto del Sinai al monastero di Santa Caterina – il luogo del Roveto ardente – o nei monasteri copti dove è lo splendore di una forte spiritualità da cercare? Così pure la basilica di San Pietro non ha lo stesso linguaggio della cattedrale di Treviri, della “Dormizione” del Cremlino di Mosca o del barocco austriaco, e la “Pietà”di Michelangelo non canta la sua preghiera come le icone bulgare o una pala d’altare spagnola.
Dopo duemila anni dalla venuta di Cristo forse non siamo ancora pronti a vedere nell’universo che ci è stato dato la grandezza di Dio. Viviamo in una specie di limbo dove crediamo di avere tutto e invece abbiamo il nulla, e restiamo inconsapevoli ad aspettare di entrare nel vero mondo, come il Signore fece per Mosè quando gli mostrò la terra promessa. Resta la speranza nella sapienza, e noi ne abbiamo un condensato nel “Libro di Giobbe”. Non la consolazione ma la smisurata bellezza del mondo.