Chi giustifica, e perché, l’estetica lasciata al vento che soffia arte come contrario della bellezza?
Argomentare sull’arte e sullo stupore perduto avrebbe bisogno di numerose pagine per un’ampia e appropriata trattazione, un’architettura del discorso che meriterebbe il respiro di un saggio per conciliare riflessioni senza l’assillo del numero delle battute. Ecco, dunque, che, per esplorare l’abisso in cui è caduta l’estetica cercheremo di renderci abbastanza questo spazio per poi magari approfondire successivamente. Per accedere all’arte, per raccontarla, per rintracciare la capacità di evocare la bellezza quale frammento in cui l’improbabile diventa plausibile. Per ghermirla in un santuario dell’incontro che trascende, e per assimilarne la forma intellettuale, fuoco che divora in una preghiera intesa come chiarore nell’infinito immortale, nell’opera d’arte che, spiegava Umberto Saba, “è sempre una confessione”. Un modo nell’immaginare l’arte come continuazione della creazione tra terra e cielo, nell’arcano che sempre si rinnova nelle grandi testimonianze che resistono al tempo in una sorta di metafisico atteggiamento di serenità imperturbabile. Lo ricorda il filosofo tedesco, Ernst Jünger, nel dire di un’opera che è perfetta quando “nulla vorremmo aggiungere, ma anche quella cui nulla vorremmo togliere”, e “se tale è la sua natura, essa si sottrae all’avvicendarsi dei tempi e ai loro criteri di valutazione; è bella per sempre”.
Non occorre recuperare la visione del tutto perfetto come nell’arte antica, ma è bene tenerla presente, per riconoscere interpretazioni ornamentali senza vita. Ma chi può affermare che oggi l’arte non ha niente da dire? Chi giustifica, e perché, l’estetica lasciata al vento che soffia arte come contrario della bellezza? E se la contemporaneità sembra dirci che tutto può diventare arte, com’è possibile che niente effettivamente lo sia? Dunque, la ricognizione andrebbe fatta su cosa l’arte ha da dire e sul perché non lo fa più. Principalmente quando c’è, o dovrebbe esserci, il rimpianto della bellezza che, parafrasando l’ideale baudelairiano dell’arte per l’arte, è il sogno di qualcosa che è esistita ed è ancora desiderabile, perché come affermava Duchamp, utilizzare un Rembrandt come un tavolo da stiro non è un Rembrandt (“Utiliser un Rembrandt comme plance à repasser, ce n’est pas un Rembrandt”).
Viene in mente Magritte con “Ceci n’est pas une pipe”, nel raffigurare una pipa non più tale perché non proposta per l’uso. Oppure un esempio antitetico l’ha dato Joseph Kosuth, artista statunitense esponente dell’arte concettuale, in “One and Three Chairs” del 1965, quando ha mostrato la fotografia di una sedia vicino una vera sedia, e confermare che tale è dilungandosi nel riportare la definizione etimologica di “sedia” tratta dal dizionario. Davanti, lo spettatore si fermava a riflettere sul significato dato dall’artista (realtà, immagine, scrittura), ma come non rammentare la scena del film “Dove vai in vacanza” con Alberto Sordi che nel tornare dalla moglie stanca, per un momento seduta a riposare su una “sedia” a una Biennale di Venezia, la ritrova circondata da visitatori che “riflettono” su quella sorta di “installazione”per poi chiedersi quanto potesse costare l’opera.
La sedia come tema d’arte, in verità, era già stato affrontato da Bruno Munari nel 1946 con “Sedia Singer”, poi quella applicata contro il quadro di “Pilgrim” (1960) da Robert Rauschenberg, inoltre da quella di Daniel Spoerri nel 1960 con “Kichka’s breakfast”, a “Wrapped chair” di Christo (1961), da Claes Oldenburg con “Shirt with objects on a chair” (1962), a Joseph Beuys nel 1964 con “Fat chair”. A seguire molti altri a ripetere quello che già in quegli anni non è che avesse molto da dire, da “ Untitled” (1965) di Lucas Ssaramas, e giù fino all’accumulo di Doris Salcedo nel 2003 alla Biennale di Istanbul. Ma c’è anche chi, Donal Moloney, si è portato dietro una sedia per sei mesi, fotografandola ovunque in ambienti disparati.
Il perché di questi accenni sta nella formula che oggi impera ed è ancora e sempre la stessa, nella pseudo prova della capacità degli artisti togati – quelli famosi del grande mercato internazionale votati al concettuale – di interagire con l’ambiente circostante, in una indagine già compiuta, che sbatte contro l’assurdo da decifrare e contro l’opportunismo del sistema arte che cerca qualcosa che non c’è, in ragioni che già Sol LeWitt riconosceva, cioè come dire che le idee possono essere opere d’arte. Ma se oggi queste “idee” non ci sono, cosa fare?
Allora, usiamo queste sedie per il loro precipuo uso, sediamoci e discutiamone, pur con alcune attenuanti per quest’arte “spettacolare” e che proprio per questo succede di esagerare. Secondo Benedetto Croce, nessun sostanziale e intrinseco rapporto relegano l’opera d’arte alla propria età e, poiché prodotto della personalità estetica, la stessa è da considerare fuori della sua epoca e di tutti i tempi, a iniziare – aggiungo – dalla distinzione, che comincia nel Rinascimento o poco prima, tra artigiano e artista. Fino allora, infatti, i dipinti e le sculture erano indicati con il riferimento ai personaggi raffigurati o agli episodi che narravano presi dalla Bibbia o dalla Storia, poi quadri e marmi iniziano a essere indicati con il nome dell’artista che li aveva fatti, non più un Cristo in croce, un’ultima Cena o una cacciata di Adamo ed Eva dal paradiso, ma l’opera di Leonardo, di Masaccio, e così di seguito con Michelangelo e Raffaello.
Un’indipendenza data all’artista e accresciuta nei secoli successivi fecondando non solo ricapitolazioni funzionali estetiche, ma la moda, il cinema, il teatro. Ebbene, oggi quest’autarchia pretende il pizzo nell’accendere le luci della ribalta sul momento in cui si è concepito che la “firma” avesse un valore in sé nel fornire il mezzo di entrare nel mercato del guadagno immediato, in vendite anche oltre l’effettivo peso qualitativo.
Quanto, dunque, vorrei analizzare non è tanto “arte si arte no”, né “bellezza si bellezza no” nel senso di “bello e brutto” (allora dovremmo chiederci perché Burri dipingeva con la fiamma ossidrica), ma entrare in una diversa “bellezza”, quella che sgorga dal nostro sentire la voce di un valore alto che non è pari a un prezzo. Un mondo in cui entrare con riferimento al binomio “immanenza trascendenza”, stabilito senza alcuna congiunzione a indicare l’unità nel loro contrario, come realtà fantasia, simile differente, e insieme la loro complementarietà.
Nel deporre l’inganno di certa “arte”, quella non arte, la disputa è su interpretazione e linguaggio, che indicano chi produce il già visto, in altre parole, per noi fruitori, quella particolare sensazione che richiama alla mente cose già vissute, già sperimentate. A questi artisti andrebbe detto quanto asseriva Rothko: “Un quadro non riguarda un’esperienza, è una esperienza”, e pertanto se non c’è la consapevolezza, la competenza di produrre arte, cercarne le ragioni sembrerebbe pleonastico. Sorregge Oscar Wilde nel dire che le cose peggiori sono commesse con le migliori intenzioni, ma non basta a giustificare l’aver lasciato esaurire la bellezza nella pratica che l’ha privata dell’alimento spirituale, complici ogni volta che ne accettiamo i condizionamenti soprattutto quando la perdita dell’aurea è sostenuta dal rifiuto di un’analisi storica e intellettuale. Con questo non significa essere conservatori o tradizionalisti, né laudator temporis acti di oraziana memoria, tutt’altro: dobbiamo essere curiosi verso qualsiasi novità e lontani da chi parla del passato in cui tutto andava meglio.
Parlarne, infatti, come nell’eco di un diario personale non significa avviare una “ricostituzione” ma unire generazioni a pescare appunti da lasciare al futuro che potrà essere buono solo se puntellato dal passato. Pertanto proviamo a mettere in ordine alfabetico i termini dei principali movimenti artistici che hanno segnato la storia dell’arte moderna, e a pensare cosa ognuno di questi ha rappresentato nel proprio definirsi attraverso le opere degli artisti aderenti a quel tipo d’espressione. Anche così mischiati, si resterà sorpresi di ricavare una cronologia illogica ma perfettamente rappresentativa dell’arte contemporanea, riflessa in un compendio novecentesco e summa, purtroppo, di quanto vediamo oggi in tante mostre. Perché?
Perché action painting, arte cinetica, arte concettuale, arte povera, astrattismo, body art, corrente, costruttivismo, cubismo, dadaismo, espressionismo, fluxus, futurismo, happening, informale, iperrealismo, land art, mail art, metafisica, minimalismo, movimento nucleare, new dada, nouveau réalisme, op art, poesia visiva, pop art, spazialismo, suprematismo, surrealismo, transavanguardia, simboleggiano ancora quanto continuiamo a osservare alle ultime edizioni della Biennale di Venezia o in tante fiere d’arte più o meno importanti, da “Art Basel” alla “Miart” di Milano o “Artissima” di Torino, oppure a Parigi, New York, alla londinese “Frieze art fair” o a Berlino per la “Art Forum”. In ognuno di questi appuntamenti, tra opere protagoniste di questi movimenti, troviamo i cosiddetti “nipoti”, quelli che già Pablo Picasso biasimava, affermando di non conoscere “nessuno che dipinge nella propria maniera” perché “tutti dipingono alla maniera di …”.
Proprio in questi luoghi massificati l’arte non ha un presente perché non tiene conto del passato, nel senso del “già fatto”, mentre s’attacca come edera al mercato che impone la regola della domanda e dell’offerta nell’immediatezza delle transazioni dal forte azzardo di un pessimo acquisto non quantificabile a prima vista. Per questo dovrebbe far riflettere la caduta delle quotazioni e il maggior numero di fiere che si tengono ogni anno in tutto il mondo, e dovrebbe non passare inosservato il listino delle aste, dove risaltano per vendite artisti dell’arte moderna e a seguire quelli contemporanei, nonostante si propongano loro opere come “affari” da non perdere.
I risultati d’asta sono pubblici e fruibili a tutti dalle banche dati, in cui è possibile poter conoscere qual è il prezzo di aggiudicazione di un’opera e poterne fare un confronto con i prezzi del cosiddetto “mercato primario” e delle gallerie, cioè quel segmento di mercato dove le opere d’arte sono vendute per la prima volta; poi dalle successive transazioni si può calcolare il “coefficiente” economico di un artista. Dispositivo che tiene conto anche delle sue recenti esposizioni in gallerie private e soprattutto in luoghi pubblici di un certo peso, oltre a pubblicazioni in cataloghi, libri d’arte, riviste di settore e presentazioni di critici riconosciuti.
Pur distratti da aspetti della memoria o iconografiche introspezioni, provate ad avvicinarvi a questi dati e usarli per “capire” l’attuale cannibalismo dell’arte che lega e contrassegna, e designa l’artefatto come oggetto estetico che in sé e per sé non dà alcun coinvolgimento emotivo, giacché quest’arte contemporanea si è isolata nel farsi celebrare come “sublime” e perciò interessa ai soliti pochi eletti che fanno parte del giro. Mentre per una parvenza artistica bisognerà applicare altra denominazione, sempre che qualcuno non venga a spiegarci un “altro” tratto distintivo di arte, senza rischiare quanto già denunciavano i futuristi in un loro “Manifesto” nell’affermare che meriterebbe “schiaffi, calci e fucilate nella schiena l’artista o il pensatore italiano che vernicia di scuse la sua viltà, dimenticando che creazione artistica è sinonimo di eroismo morale e fisico”.
In altre parole l’arte si palesa nella sua impronta che nutre ma c’è la malavoglia ad ammettere – a scorgere certe brutture o scenografie – che molti digiunano d’arte nel senso di comprenderla, mentre alcuni dicono che l’arte sia avara di cultura e hanno ragione, in contrasto con mercanti e critici per tutto ciò che rientra nella loro sfera di scuderia, in una resa esplosiva nella fusione di temi già usati dalle avanguardie storiche. Poi, altri dicono che un punto di fuga sia ormai impraticabile e che l’arte esprime l’inquietudine, e pertanto il saper fare è superato dal voler fare. Ma noi, utilizzatori attivi o passivi, cosa vogliamo?
Caro lettore, se il bello non ti dà né piacere né dispiacere, se non provi una vertigine in una cattedrale gotica e davanti a un dipinto di Rothko continui a credere che la “spiritualità” sia solo una espressione religiosa, se per te conoscenza ed esistenza non hanno nulla in comune con l’estetica e senti indifferenza davanti alla “Pietà” di Michelangelo mentre ti diverte quella di Fabre, se hai solo certezze e nessun dubbio, se per te Duchamp è stato un furbetto del quartiere e Beuys l’esempio che tutti possono fare arte, allora non continuare a leggermi. Se, invece, decidi di andare avanti, vorrà dire che non tutto è perduto, e che hai quell’empatia con l’arte per assorbirne l’inconsistenza nella mancanza della “luce” che consegna il buio e occlude ogni via d’uscita. Poi, la scommessa di arrivare alla fine per allontanarci insieme da quella mimesi che uccide l’immateriale e non consente di salvarsi da brutti edifici e monumenti che assediano la nostra esistenza, dalle lordure che sovrastano in ogni dove, nelle strade, nelle piazze, nei giardini, costretti ogni giorno ad allontanare il lezzo dal vicolo dell’ignavia tra topi e scarafaggi per tornare a casa a pane e acqua nel rimanere digiuni d’arte. Scena medievale, ma almeno nel Medioevo e nel Rinascimento si tornava a casa con lo splendore negli occhi.
Oggi osserviamo un’arte che ha creato un suo solitario mondo dove non è più elemento centrale, in una generazione che è distolta dal suo contesto ideale, e con questo dovremmo capire perché l’Italia, il paese della bellezza, abbia tradito un’eredità che ha reso la società nichilista sul piano formale, in una rincorsa esistenziale contaminata dal soggettivismo dove si convive con la bruttezza in un disinteresse collettivo. Similmente l’ordinarietà della realtà così costruita porta all’arroganza del potere e a un triste primato: la difficoltà di definire l’arte non avendo un metodo d’osservazione, in un tema critico su cui la storiografia si è persa in echi discordanti senza alcuna soluzione, tranne che intentare un processo come fu per “Bird in the space” di Brancusi. Difficile, soprattutto quando si pensa che l’arte sia una branca dove ciascuno può dire la propria, come per una squadra di calcio a parlarne al bar dello sport, piuttosto che tentare di manifestare qualcosa da spartire per un contributo differente.
Una prima battuta? Basterebbe leggere “Lo spirituale nell’arte” di Kandinsky per concepire di tralasciare – e lo scriveva già nel 1910 – paroloni ad arrampicarsi e diatribe tra estetica e poetica, comune a tanta “cultura” odierna, per fermare l’arte nell’apporto purificante della meditazione attraverso l’esperienza contemporanea pur con tutti suoi paradossi. Ma come rintracciare o dove scorgere la bellezza nell’arte?
James Joice esortava a “cercare adagio, umilmente, … di tornare a spremere dalla terra bruta o da ciò ch’essa genera, dai suoni, dalle forme e dai colori, che sono le porte della prigione della nostra anima, un’immagine di quella bellezza che siamo giunti a comprendere” e affermava che “questo è l’arte”. È l’arte che “ha bisogno o di solitudine o di miseria, o di passione”, come “un fiore di roccia che richiede il vento aspro e il terreno rude”, precisava Dumas padre, ed è questo il bello di prim’ordine. Cerchiamo, insomma, di compiere un atto che fecondi il ricorso alla mente per contrastare la mancanza di ideali, in un archivio a scrutare l’ultima cosa che ha entusiasmato, e rivivere l’attimo senza parole che va oltre nell’animo che si quieta.
“Che il segreto dell’arte sia qui?”, ci dice Elsa Morante. “Ricordare come l’opera si è vista in uno stato di sogno, ridirla come si è vista, cercare soprattutto di ricordare”, perché “forse tutto l’inventare è ricordare”. Allora, caro lettore, sei a casa e stai leggendo … elimina lo sperimentalismo vacuo perché l’arte è una cosa seria e non deve disumanizzare … cancella virtuosità di linguaggio e articolazioni stilistiche … torna alla tua emozione, non lasciare che ti dicano cos’è l’arte, e a cosa serve, perché lo sai già: è quella che mostra l’epifania dell’irrazionale. È quella che desidera una mente dove non siano estranee la bellezza né l’osmosi tra intenzione e realizzazione, tra quello che sentiamo e quello che vediamo nel detrarre la tracciabilità dell’opera. Ecco, quello che resta è la sostanza, ed è questa differenza a essere davvero arte. È questo distinguo che fa un artista “grande” o una delle tante stelle cadenti. È questo discernere che dà l’esempio di perfezione che si manifesta nel brivido che si prova davanti al capolavoro, alla vera opera d’arte che è, diceva Friedrich Hegel, “essenzialmente una domanda, un’apostrofe, rivolta a un cuore che vi risponde, un appello indirizzato all’animo e allo spirito”.
Troviamo insieme un’altra ragione d’essere non tanto nel provare a sbrogliare l’appiattimento rinunciatario di fronte all’arte incapace della rinascita, bensì nell’interrogare la bellezza e dare finalmente inizio a un’arte che non sia anti-arte. Solo allora la nostra dimenticanza avrà più connotazioni, almeno nello scopo di aver apparecchiato una tavola alla quale altri potranno sedere per un cenacolo di idee, per combattere il contrario che non trova alcun senso in una teorizzazione che vorrebbe trovare una discolpa nel grottesco come scelta. Tranne che non abbia ragione Carl Gustav Young nello spiegarci il “segreto”, quello che risiede nella “premonizione di cose sconosciute”, per cui “l’uomo deve sentire che vive in un mondo che, per certi aspetti, è misterioso; che in esso avvengono e si sperimentano cose che restano inesplicabili”. Così è l’artista togato che non “sente” di vivere in una posizione di retroguardia culturale, e che nel ricorso a un’arte “comune” a tanta altra arte, e denotativa di una entità generica per fabbricare il differente dall’identico, diventa “inesplicabile”.
Andrea Barretta