Direttore Andrea Barretta

La comunicazione e la dicotomia etica tra intenzione e responsabilità

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L’indifferentismo come risultato di un individualismo esasperato, o la frustrazione che è deri­va priva di vita, segnata da una visione materialistica caratteristica delle società secolarizzate. Un tema d’attualità per gli ultimi fatti di cronaca e “Noi Arte” andrà ad approfondire anche per l’arte e la cultura.

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Per comunicare efficacemente, dobbiamo realizzare che siamo tutti diversi nel modo di percepire il mondo e utilizzare questa comprensione come guida della nostra comunicazione con gli altri.

(Matteo Mainetti)

In altre epoche e in altre civiltà la comunicazione era riservata a pochi. Oggi la trasmissione di messaggi in presa diretta pone la questione di una super comunicazione tanto illimitata da raggiungere il paradosso di una non comunicazione per cui viene meno la parola parlata supplita da uno stravolgimento della scrittura: ne sono un esempio i milioni di sms che i giovani si scambiano. Certo, si può obiettare, comunque c’è comunicazione quando c’è relazione dell’uno con l’altro, ma va da sé che è stato raggiunto e superato l’oggettivo soggettivismo di quanto in principio era il “logos”.

Comunicare con il corpo, con le mani, con i gesti, con il come si è vestiti, paradossalmente va oltre il corrispondere con il linguaggio e, coscientemente o non, l’interagire – ad esempio con l’arte – s’appropria dell’apparire e sostituisce quel rapporto sociale alla base del confronto con gli altri, alla base della comunicazione.

Oggi la comunicazione risulta difficile perché implica un confronto, e quando ognuno non intende rinunciare a qualcosa ma ad avere il tutto, allora prevale l’ostentazione di sicurezze che mortificano progetti comuni, incapaci di discernimento e contrassegnati da incertezze, giacché senza la capacità di parlare la lingua dell’altro, l’uomo non può realizzare sé stesso né l’accogliersi vicendevolmente, indispensabile per il bene di tutti.

Solo dalla mediazione comunicativa con gli altri suoi simili l’uomo prospera e si evolve nel darsi delle regole sociali per vivere e convivere, ma come motivare ciò che vogliamo dire “all’altro” con la crisi dei valori etici in atto? Dov’è finita l’arte sociale? Più volte ho parlato di assenza di valori, di nichilismo, di relativismo, e più volte abbiamo citato atti di incivile sopraffazione che sociologi distratti attribuiscono alla noia, allo scellerato bisogno di emozioni forti, mentre noi preferiremmo il metodo della prevenzione che, come ha insegnato don Bosco, è il cuore dell’educazione. Educazione anche attraverso l’arte.

Ne ho parlato in riferimento all’urgenza di una rivisitazione culturale di un progetto di vita che accomuni e non divida, che salvi il principio della scelta, che parli in egual modo a tutti. Abbiamo auspicato un nuovo alfabeto con cui rivolgersi a identità molteplici e non monolitiche, abbiamo manifestato il pericolo di una omologazione edonica dei comportamenti, abbiamo cercato di indicare alternative … con quali risultati?

Sappiamo bene che occorre non essere astratti e pur accettando i limiti di un’antropologia relazionale prigioniera dell’individualismo, nello stesso tempo dovremmo far sì che questa limitatezza favorisca lo sviluppo di una maggiore coscienza di ogni identità, debellando l’estraneità che annulla la diversità. Un  modello di comunicazione, in questi casi, andrebbe inteso come processo di informazione obiettiva all’interno di quello che Benedetto XVI ha definito “infoetica”, in cui si è chiamati a corrispondere con l’attenzione, dentro una logica paradigmatica che colga i problemi più urgenti tra l’individuo e la collettività, e il modo o i modi migliori per affrontarli, senza deroghe, favorevoli dunque a soluzioni cogenti, ma con una domanda: se vogliamo veramente agire, come farlo senza effetti collaterali?

Non sembri un gioco di parole, ma informare significa anche chiedere informazioni, uno scambio comunicativo in una visione della realtà che conservi non solo la dimensione dell’aspetto di notizie negative ma che illustri le cose belle e buone attorno a noi, sottolineando quelle che non vediamo proprio perché delusi e stanchi, con continui stati ansiosi spesso sfocianti nel patologico.

Tutto questo, infatti, ha una stretta vicinanza con i concetti di onestà e di verità – quest’ultima accostata impropriamente all’autenticità – così come una stretta comunanza con quelli di manipolazione e di persuasione. Ma come evitare l’attuazione di quel frazionamento di equivalenze a proprio uso e consumo che il sociologo Maximilian Weber definiva “politeismo dei valori”? La manipolazione della comunicazione è un’estensione di cervelli fini, efficace nelle idee più che nelle argomentazioni dialettiche, visto che una certa consapevolezza morale è oggettivata dal conflitto tra libertà e verità, spesso facendo soccombere la seconda. Ecco, la ricerca della verità: responsabilità difficile per la comunicazione, e non ci riferiamo soltanto a quella dei media, ma a quella personale che sta diventando sempre più anonima, che s’identifica nelle comunità virtuali.

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“Siamo sempre più coinvolti dai media e sempre meno presi dall’arte di comunicare”.

(Studs Terkel)

Nulla di buono, tranne l’aver tacitato quanti asserivano la morte della scrittura nell’era tecnologica … e cosa dire sull’arte a profusione su facebook? Gutenberg per la scrittura ne sarebbe contento, ma non vediamo nulla di positivo quando la conclusione è l’indifferentismo come risultato di un individualismo esasperato, o la frustrazione che è deri­va priva di vita, segnata da una visione materialistica caratteristica delle società secolarizzate. La sfida che la comunicazione porta con sé – sociali e culturali – chiama a privilegiare un dialogo con il nostro tempo, evitando esperienze di approssimazio­ne, spingendo l’uomo ad uscire dalla consuetudine e dall’effimero.

Un processo verbale che non può prescindere da abitudini culturali comuni, frutto di esperienze che possono assumere significati diversi e produrre cambiamenti nei comportamenti individuali o modelli che, se espressi in un certo ambiente o in un altro, generano dimensioni positive o negative, senza quei valori che sempre dovrebbero dare senso alla comunicazione stessa.

Nella lingua greca antica i verbi parlare e raccontare si riferivano non solo al sostantivo corrispondente logos ma anche al verbo “leghein” che significa, tra l’altro, accogliere ciò che viene detto e quindi ascoltare; ma il dialogo con la cultura dei media e con le culture mediate del mondo di oggi porta con sé un trasformismo che non consente di comprendere quelle pur piccole verità sulla natura della comunicazione umana.

La soluzione non l’abbiamo neanche noi ma che debba essere planetaria, questo è certo. Occorre una nuova progettualità che ridisegni lo sviluppo in maniera globale, basandosi sul fondamento etico della responsabilità, così come Papa Benedetto XVI ha scritto nella sua enciclica “Caritas in veritate”, là dove spiega che “in una società in via di globalizzazione, il bene comune e l’impegno per esso non possono non assumere le dimensioni dell’intera famiglia umana”.

A parlare e a raccontare sono tutti bravi e così pure le “magnifiche” e coloratissime campagne d’informazione che spesso rasentano la “pubblicità” piuttosto che un serio messaggio che comunichi giustizia, pace, che favorisca le ragioni del dialogo e quelle dell’unione, che elimini le oppressioni, insostenibili nell’epoca moderna.

Si stanno facendo molti sforzi per migliorare questo stato di cose ma come affrontare le “ragioni” delle aziende multinazionali o quelle “dittatoriali” negli stessi Stati interessati, quando le poche ma importanti risorse locali sono preda di un feroce sfruttamento, senza lasciare quella pur unica possibilità di riprendersi economicamente? Ma significherebbe, appunto, ascoltare, e risolvere la dicotomia etica tra i buoni propositi – l’intenzione – e la responsabilità: tutt’altra cosa!

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