Non ho mai creduto che il senso del bello sia dovuto a formule neurologiche o a raffronti culturali tra il soggettivo e l’oggettivo, ma piuttosto a una innata acquisizione nel tempo e per frequentazione con i canoni della bellezza. È questa una questione dibattuta anche in consessi scientifici e, se escludiamo quel senso di malessere provato davanti un’opera d’arte codificato come “Sindrome di Stendhal”, ovvero di un momentaneo stato confusionale della mente dovuto all’arte e alle emozioni che essa provoca, questi meccanismi di immedesimazione, il filo cui mi sento più legato è a ciò che per educazione e per esperienza abbiamo acquisito nella nostra vita, come ad essere perennemente su un banco di scuola ad imparare il bello, ad arricchire la memoria di nozioni ma pure di emotività rapportate a stimoli di bellezza.
“Se c’è sulla terra e fra tutti i nulla qualcosa da adorare, se esiste qualcosa di santo, di puro, di sublime, qualcosa che assecondi questo smisurato desiderio dell’infinito e del vago che chiamano anima, questa è l’arte”.
Gustave Flaubert
Certo, va pure detto che bellezza e arte non sono concetti concomitanti. Davanti a noi non troviamo soltanto Michelangelo e Caravaggio, ma tutta una bellezza prodotta nelle sue molteplici sfaccettature figlie della condizione corrente, di cui i posteri avranno la sentenza, e se è un’arte “solo figlia del suo tempo” senza diventare “mai madre del futuro”, vorrà dire, come ha scritto Kandinskij, che “è un’arte sterile”. Oggi, infatti, sembra che la bellezza sia alla portata di tutti (e allo stesso tempo lontanissima!), almeno per l’inesauribile relazione che esiste tra il “bello” e il “brutto”, tanto che in altra epoca la bellezza era riferita soltanto alla natura e non all’arte ancora relegata in una sorta di artigianalità, di una buona manualità nel fare le cose, siano esse un dipinto o una scultura o una ciotola per la cucina.
È altrettanto vero, d’altronde, che l’asincronismo bellezza-arte da riferire a realtà spazialmente e temporalmente diverse pur vivono una suggestione reciproca, se guardiamo alla mitologia, al senso comune greco della Bellezza, in una visione dell’armonia contro il “Caos”, dalla cui bocca spalancata in uno sbadiglio è scaturito il mondo. Qui come nel Medioevo la Bellezza è meraviglia, manifestazione del Divino riflessa nel Creato e nella natura, e se l’oracolo di Delfi, alla domanda sul come valutare la Bellezza, risponde: “Il più giusto è il più bello”, è indubbio che esista un legame misterioso tra il Bello, l’arte e il divino, tra armonia e pittura, scultura, letteratura, musica, architettura.
Dostoevskij nel suo secondo romanzo “L’Idiota”, scritto dopo “Delitto e castigo”, fa dire al principe Miškin che “il mondo sarà salvato dalla bellezza”. Anzi, in verità gli chiede conferma di aver affermato tal pensiero, palesando egli stesso un dubbio che poi diventerà fulcro di tutta la sua narrazione e perno dell’obiezione che fa poi esprimere a Ippòlit – altro personaggio del romanzo – non a caso un ragazzo di diciotto anni a cui rimangono pochi giorni di vita a causa della tisi: “Il principe afferma che il mondo sarà salvato dalla bellezza! (…) Quale Bellezza salverà il mondo? Siete un cristiano fervente voi? Kolja dice che voi stesso vi attribuite il titolo di cristiano”.
Ecco, nei personaggi come stereotipi di una varietà umana, il principe è controcorrente, è colui che cerca di seminare la bellezza in una società di assoluta desolazione spirituale. Pensa a una bellezza assolutamente bella. Nulla di più difficile soprattutto nel contemporaneo – di ieri e d’oggi – che al bello come ideale, alla filocalia, oppone un “idiota” che vede nella bellezza la facoltà d’insinuare l’armonia nel mondo, per poi ritrovarsi a consumarne il fallimento in modo simultaneo a tutte le tragedie dell’umanità. Il Duemila sta confermando molte antinomie riguardo al concetto di bellezza, nel paradosso di “critiche” contraddittorie e nello stesso tempo valide prese a sé stante, in altre parole, interpretando Kant, l’arte ha un inizio nel tempo e nello spazio ed è chiusa dentro limiti, ma va oltre sia nel tempo che nello spazio. Allora: l’arte è solo bellezza o anche contenuto? L’attimo dell’intuizione-espressione è sempre e solo giustificabile come fenomeno estetico?
È indubbio che noi oggi sperimentiamo quanto Joseph Ratzinger, ancora cardinale, già esprimeva in riferimento allo smarrimento dell’arte “con un’intensità finora sconosciuta” e che rapportava a una crisi dell’umanità, “che proprio nell’estrema esasperazione del dominio materiale del mondo è precipitata nell’accecamento di fronte alle grandi questioni dell’uomo, a quelle domande sul destino ultimo dell’uomo che vanno oltre la dimensione materiale”. E concludeva affermando che “questa situazione può essere certamente definita come un accecamento dello spirito”. Ma se lo spirituale nell’arte è una componente della “bellezza” e la mancanza di emozioni parte di una scena grigia, dipinta per appagare l’apparenza più che la sostanza, allora trovare il concetto di bellezza nell’arte contemporanea è alquanto problematico, soprattutto se notiamo che la creatività è posta al servizio di un rutilante modo di scioccare e provocare piuttosto che di accettare la rappresentazione di quanto è possibile comunicare dando un significato alle esperienze.
È una sorta di idiosincrasia sfrenata derivata da un feroce anticonformismo che, se è proprio degli artisti, esageratamente attiva una demistificazione della realtà sociale lontana da ogni dimensione di quella libera espressione che è l’ispirazione.
Il rifiuto della storia tra passato e presente porta ad eliminare il rapimento epifanico – di una verità nuda ma pur fatta di simboli e di immagini – identificabile nell’intuizione improvvisa, sconvolgente e unica, e per la “bellezza” l’intensa meraviglia, l’esaltazione che frutta entusiasmo, il manifestarsi del vero nascosto nella percezione temporale. Il “precedente”, la storia delle arti -ahinoi! – non fa altro che dimostrare che quella distinzione cui anela il contemporaneo è persa in un labirinto demiurgico che trasforma o forma senza creare, sottomessa all’andazzo e alle esigenze di un mercato arruffone e smarrita in sperimentazioni acclarate da una critica astrusa e autoreferenziale.
Così quell’indipendenza cercata diventa dipendenza da quella stessa massa che, come nuovi esistenzialisti, si voleva evitare, e ben s’esplica in quanto affermava Warhol quando apostrofava le masse che vogliono apparire anticonformiste, affermandone il vero significato, ovvero che l’anticonformismo deve essere prodotto per le masse.
L’arte contemporanea, allora, quella togata, in un certo senso, è un male necessario, un viatico verso una nuova epifania oltre il vuoto del simboleggiare soltanto il “provvisorio”, l’ansia, l’inquietudine delle cose terrene cui guardare come un appuntamento con la finitudine e la trasgressione. Sembrerà strano, allora, e provocatorio, ma decadentismo e modernismo, in un’era in cui si parla di postmoderno, sono oggi un connubio che porta molto indietro nel tempo, a una bellezza manierista, ricercatrice ossessiva di bizzarrie e di nefandezze, quasi a rappresentarne il contrario, il “brutto”, trasformandolo in un’altrettanta estasi, ma materialistica.
“Tutta l’arte peggiore è il risultato di buone intenzioni”, scriveva Oscar Wilde, affermando che “l’arte non esprime mai altro che sé stessa” e che “la Bellezza è una forma del Genio, anzi, è più alta del Genio perché non necessita di spiegazioni. Essa è uno dei grandi fatti del mondo, come la luce solare, la primavera, il riflesso nell’acqua scura di quella conchiglia d’argento che chiamiamo luna. Non può essere interrogata: regna per diritto divino”. Però nell’arte le buone intenzioni non hanno il minimo valore.
Nel tempo, però, l’accordo tra fede e arte si è infranto e – come ha spiegato mons. Gianfranco Ravasi – ha abbandonato la concezione secondo la quale l’opera artistica incarna una visione trascendente dell’essere e si è sostanzialmente dedicata a sperimentazioni di linguaggio, a complesse ricerche stilistiche, a elaborazioni autoreferenziali. Queste vie non si protendono verso nessuna meta, a differenza di quei tentativi che il Novecento aveva esperito, apparentemente scardinando la grammatica estetica tradizionale, ma con l’attesa di una nuova epifania di bellezza e di mistero.
La grande sfida dell’artista, asseriva Giovanni Paolo II, è quella di “carpire dal cielo dello spirito i suoi tesori e rivestirli di parola, di colori, di forme, di accessibilità”. Forse non riusciamo a carpire più nulla dal Creato o forse è proprio nell’esperienza odierna del “brutto”, che non riesce a esprimere neanche una bella chiesa, che va ricercato un linguaggio decifratore che ci sveli l’anima segreta delle cose, affinché l’arte torni a ferire come splendore del Vero, e poter credere che in un mondo preda della bruttezza ci sia pur sempre la speranza in una Bellezza salvatrice.
La Bellezza, dunque, con il compito di descrivere il visibile, ma soprattutto di cogliere nel visibile l’Invisibile. Sì, è possibile. Il mondo sarà salvato dalla bellezza, … sempre che il mondo decida di capire la Bellezza e difenderla e custodirla.