Direttore Andrea Barretta

Ecovidicidio: la lezione del Covid per una conversione ecologica

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Un libro di Andrea Barretta tra ecologia e convivenza nella mobilità umana.

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Edizioni Compagnia della Stampa.

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Può sembrare un titolo enfatizzante eppure in emergenza sanitaria e umanitaria appare opportuno. “Ecovidicidio”: un neologismo creato da Andrea Barretta per sintetizzare lo stretto legame tra Covid-19 e il crimine contro la natura in un saggio documentato per una discussione nelle inestricabili connessioni con l’economia e lo sviluppo, il capitalismo, le multinazionali, le nuove povertà, lo sfruttamento delle risorse, nella possibilità di affrontare la crisi ecologica nel rapporto inseparabile tra salute dell’uomo e quella del pianeta.

Non si tratta tuttavia di un testo per specialisti ma di un’opera che con rigore assume un tono divulgativo e accessibile, anche se a tratti è un libro forte per una necessità di documentare la tragedia vissuta, e non ancora terminata, anche attraverso la distruzione degli ecosistemi e la globalizzazione con i rischi ormai acclarati, per quanto avvelena l’ambiente nella presunzione di un progresso a tutti i costi per il profitto o il potere, in uno scenario tratto dagli studi disponibili.

Ed ecco i perché oggi non possiamo non mettere in discussione il nostro rapporto con la flora e la fauna, con fiumi e mari, nella radice della convivenza nella mobilità umana e del nostro infinito viaggiare.

Dal contatto con animali selvatici spodestati dal loro habitat al surriscaldamento globale e le sue cause, dall’inquinamento dell’aria ai limiti della produttività, dallo scioglimento dei ghiacci polari alla mutazione di virus e alcune malattie nella loro diffusione, al controllo delle risorse e le conseguenti e inarrestabili migrazioni che, secondo Barretta, potrebbero in un prossimo futuro vederci tutti migranti. Allora per chi desidera essere informato questo libro offre anche risposte per migliorare la nostra vita quotidiana nelle nostre città e metropoli, spesso luoghi di alienazione e consumismo.

La natura è come un fiore da accudire tra intelligenza, conoscenza e scienza. È “il tempo che hai perduto per la tua rosa che ha fatto la tua rosa così importante”, leggiamo ne “Il piccolo principe” di Antoine de Saint-Exupéry. Pertanto dovremmo tutti chiederci cosa ci sta accadendo affinché non succeda quanto racconta un apologo di autore ignoto che descrive il comportamento di quattro persone chiamate Ognuno, Qualcuno, Ciascuno, Nessuno, e ne traccia la storia: “C’era un lavoro urgente da fare e Ognuno era sicuro che Qualcuno lo avrebbe fatto. Ciascuno avrebbe potuto farlo ma Nessuno lo fece. Finì che Ciascuno incolpò Qualcuno perché Nessuno fece ciò che Ognuno avrebbe potuto fare”. Per questo non basta riunirsi nei pomposi G7 per i maggiori Stati tra cui c’è l’Italia insieme a Canada, Francia, Germania, Giappone, Regno Unito e Stati Uniti d’America. Così come i G14 e poi il G20, il gruppo che riunisce le più importanti economie del mondo. A discutere di molti temi ma anche dei problemi ecologici che però restano in agenda da troppi anni: cambiamenti climatici, emissione di gas serra, combustibili fossili e aumento del consumo di petrolio e di gas, commercio, lavoro, disuguaglianze e trasformazione digitale.

Tante promesse per un fare più concreto, ma grandi “inquinatori”, come India, Australia e il Brasile glissano sugli impegni da prendere e pure la Cina ha subordinato il taglio alle sue esigenze di opportunità economiche, dichiarando che le emissioni di gas serra continueranno fino al 2030 e solo in seguito, progressivamente, inizieranno a calare. Intanto le emissioni di gas serra della Cina hanno superato nel 2019 quelle di Usa e Paesi sviluppati messi insieme. E, dunque, certo non nutro speranze anche alla luce dell’incontro, in aprile 2021, tra Stati Uniti e Cina che si dicevano, ancora una volta, impegnati a cooperare reciprocamente e con altri Paesi per affrontare la crisi del clima, “che deve essere trattata con la serietà e l’urgenza che richiede”, se solo pensiamo che sono tra i Paesi più inquinanti del mondo: il primo europeo risulterebbe la Germania.

Pur cogliendo, comunque, un rinnovamento in atto e non tralasciando il nostro modo di vivere, l’ecologia può partecipare alla promozione di uno sviluppo non disgiunto dal progresso con riferimento alla cultura anche nella mobilità umana, nell’intraprendere un viaggio nella bellezza della natura in una dimensione antropologica e nel dare motivazioni attraverso una geografia che salvaguardi l’ambiente. Infatti, “mobilità” è parola dalle risonanze molteplici. C’è quella esodale come per i recenti fenomeni in una necessità di sopravvivenza; quella di lavoro; quella di ricerca e di avventura ma anche di evasione e di consumo, ed emergono contraddizioni che traslocano dalla mobilità fisica alla perdita dei riferimenti d’identità come occasione per conoscere le priorità di una proposta ecologica giacché le nostre vecchie certezze sono diventate incertezze se la visone globale è solo quella dell’aumento del Prodotto Interno Lordo (Pil), nella presunzione di poter crescere in maniera infinita. “Devo lasciare un biglietto a mio nipote: la richiesta di perdono per non avergli lasciato un mondo migliore di quello che è”, scriveva il poeta Andrea Zanzotto.

In un momento in cui l’attenzione per l’ambiente viene sempre più ricercata ma al tempo stesso sembra che i governi di tutto il mondo siano ancora lontani dal trovare una valida soluzione, e sebbene le nostre azioni individuali nella vita di tutti i giorni rappresentino solo una piccola parte, è comunque necessario dare il nostro contributo perché l’ecologia c’insegna a vivere meglio. Occorre la nostra dedizione tenace come per la goccia che cadendo “scava la pietra, non per la sua forza, ma per la sua costanza”, scriveva Lucrezio, anche per contrastare il riduzionismo, ossia il minimizzare, e le negazioni di chi ha interesse a mantenere il silenzio perché trae vantaggio dall’attuale situazione. Come per le tre scimmie: non vedo, non sento, non parlo, allorquando la fascia dell’ozono ha cominciato a scomparire, la superficie occupata da foreste si è dimezzata e così la fauna ittica. 

Allora, ha scritto Jean-Pierre Tertrais, ci vuole “creatività, sperimentazione che le persone dimostreranno. In una resistenza politica organizzata, ciascuno deve operare secondo le sue capacità. Il pianeta non ha bisogno di eroi, ma una delle strategie più efficaci sarebbe quella di vedere il collasso già in atto, senza perdere di vista il fatto che più il sistema si sente minacciato, più diventerà repressivo e implacabile. I punti deboli del sistema risiedono nella concentrazione, nel gigantismo delle infrastrutture (produzione, trasporto, mobilità). L’obiettivo è quindi quello di ‘smantellare il sistema’ provocando momenti di rottura, fermando l’economia del capitale privandola degli appoggi corruttivi. In diverse regioni del pianeta, donne e uomini ci stanno lavorando, spesso mettendo a rischio la propria vita: sarebbe bene, almeno, non denigrarli. Oltre l’emarginazione di chi fa controinformazione e la repressione, se l’associazione Global Witness conta – principalmente in Brasile, Filippine, Honduras e Congo – centodiciassette attivisti ambientali uccisi nel 2014, centottantacinque nel 2015, duecentosette nel 2016, centonovantasette nel 2017. Quante migliaia di morti ci vorranno per liberare le masse dal loro torpore?”.

Da qui prende avvio l’espressione civile che incrementi possibili scelte pur con tutte le implicazioni esistenziali, fra dubbi e indifferenza, in una cultura che ha innalzato il consumo a paradigma del vivere situazioni non più prorogabili, in una società che misura il benessere collettivo in base alla crescita del Pil. E qui, pagina dopo pagina, avremo modo di chiederci se le istituzioni compiono il loro dovere in una incostanza della politica, nelle speculazioni, nelle soluzioni parziali, e se la trasmissione di una morale comune faccia presa sui temi ecologici solo sporadicamente e con quale esito, in un orizzonte di riferimento nel tentativo di tracciare un percorso che apra varchi alla comprensione e incida le coscienze e i vissuti umani nelle molteplici forme di attuazione, coinvolgendo anche gli ambiti educativi come la scuola, la famiglia, i mezzi di comunicazione.

L’idea preconcetta per cui non ci sono alternative al modo di vivere imposto dall’ipercapitalismo sta andando in frantumi. Le alternative esistono ed entreranno sempre più di frequente nella vita dei cittadini dalla porta di servizio delle crisi pandemiche, dei disastri ambientali e dei collassi finanziari. Le alternative sono indispensabili: se non le riportiamo al centro del dibattito politico e civile, faranno ritorno da sole, nel peggiore dei modi possibili.

In tal senso, dunque, viene da sé che la natura richiede una particolare partecipazione – ma per tempo, graduale e continuativa – per i modi di un intervento che pure andrò a evidenziare, quale segno di un fattore di trasformazione ed elevazione sociale per risolversi in autentica testimonianza nel farsene carico. Sempre che saremo pronti ad assumere significati e contenuti di un traguardo cercato. Sempre che non diamo ragione a Curzio Malaparte nell’affermare che “quando un popolo individualista come il nostro perde la fiducia in sé stesso e nelle istituzioni che lo reggono, l’immoralità diventa una forma di vivere civile e la mediocrità invade la cosa pubblica”. Allora, cosa possiamo dire del piano pandemico italiano che non veniva aggiornato dal 2006, e quindi era del tutto inadeguato ad affrontare l’emergenza? Seppure va considerato un più ampio quadro mondiale di incongruenze, inefficienze e omissioni, che hanno consentito all’epidemia una incontrastata diffusione.

È giusto parlarne, allora, per verificarne la sostanza, per allontanare commistioni inopportune, per annodare opportunità in risorse in più rispetto al passato che esigono una riorganizzazione non solo in termini di promozione, d’informazione e di controllo della qualità della vita che ad oggi resta a livelli inaccettabili. E per qualità intendo pure una corretta risposta a una domanda di riferimento di senso trasversale attraverso le generazioni, privilegiando piani che raggiungano il valore di un mondo sostenibile a cominciare dal nostro territorio, la nostra società. Non solo. Dopo la crisi finanziaria del 2008, gli economisti hanno rilevato che gli investimenti verdi creano più posti di lavoro, offrono maggiori rendimenti a breve termine e portano a un aumento dei risparmi sui costi a lungo termine, rispetto ai tradizionali stimoli fiscali. Secondo Papa Francesco sarebbe stata “l’occasione per sviluppare una nuova economia più attenta ai principi etici, e per una nuova regolamentazione dell’attività finanziaria speculativa e della ricchezza virtuale. Ma non c’è stata una reazione che abbia portato a ripensare i criteri obsoleti che continuano a governare il mondo. Anzi, pare che le effettive strategie sviluppatesi successivamente nel mondo siano state orientate a maggiore individualismo, minore integrazione, maggiore libertà per i veri potenti, che trovano sempre il modo di uscire indenni”.

Ci addentreremo, quindi, anche in una dissertazione etica e sociologica in percorsi dell’esperienza, di possibilità di un concreto desiderio di ritrovarsi per essere protagonisti e non burattini nelle mani dei potenti della Terra, per uscire dal circolo vizioso di un non fare che continua cadendo in una esteriorità che ha tutto il sapore di un vuoto a perdere. Perché siamo giunti a questo punto, facendo prosperare questa falsa quiete? Una risposta potrebbe essere in quanto scrive il poeta polacco Czelaw Milosz: perché sono “riusciti a far credere all’uomo che, se vive, è solo per la grazia dei potenti”. Perché, scriveva Aldous Huxley, “la dittatura perfetta avrà sembianza di democrazia, una prigione senza muri nella quale i prigionieri non sogneranno mai di fuggire. Un sistema di schiavitù dove, grazie al consumo e al divertimento, gli schiavi ameranno la loro schiavitù”.

Negli ultimi sessant’anni abbiamo pagato un prezzo altissimo al dissesto idrogeologico sia dal punto di vista delle vite umane che di quello economico. Il nostro Paese è anche tra i primi al mondo per perdite di vite umane a seguito di catastrofi naturali. Questa verità atroce è figlia di un calcolo brutale: duecentomila morti dall’Unità d’Italia a oggi sotto le macerie dei terremoti o nel fango delle alluvioni, e sette miliardi circa di spesa l’anno, dal dopoguerra, per risarcimenti e ricostruzioni, scrive Erasmo D’Angelis. Le colpe sono assai più vicine di quanto si pensi e i colpevoli hanno un nome e un cognome. Anni di cemento a presa rapida sulle coste e ai piedi delle montagne, di condoni e normative suicide. A cui è seguito uno stato di perenne emergenza, con deroghe alle leggi e poteri straordinari, facilmente trasformatisi nei luoghi ideali per il prosperare di criminalità e malaffare. Ma le frane e le alluvioni hanno a che fare anche con il dissesto atmosferico. In sole tre generazioni, nell’ultimo secolo e mezzo, la manomissione dell’ambiente ha accelerato il ritmo delle modifiche climatiche, tanto che in un tempo biologico infinitamente piccolo l’uomo si è rivelato l’inquilino più disastroso del condominio terrestre. Mentre ad ogni tragedia corrisponde il solito copione a rincorrere l’emergenza: uno stato di calamità che costa al Paese dieci volte di più di quanto sarebbe costata la prevenzione. 

Una foresta, un fiume, un parco, una foglia caduta in autunno, sono già una forma di complementarietà con l’uomo in un incremento tecnologico che non sempre è finalizzato al progresso della società, non più rappresentativo della domanda di beni che attiva l’occorrenza in un benessere che contraddistingue il mondo industriale tra frutti estivi d’inverno e frutti esotici sugli scaffali dei supermercati. Per questo l’ecologia non può essere considerata come un fenomeno autonomo se nelle nostre città, sulle nostre strade, vediamo anatre, cinghiali, caprioli, orsi e lupi, un tasso che corre per le strade a Firenze e un’aquila reale nel cielo di Milano, mentre il falco pellegrino è riuscito ad adattarsi agli ambienti urbani e nidifica sui grattacieli di New York, Londra e anche in Italia. E non solo: leoni che prendono il sole sull’asfalto in Sudafrica, canguri che saltellano per le strade di Adelaide, scimmie che invadono viali in Tailandia, branchi di bufali sulle superstrade di Nuova Delhi. 

È un pericolo l’espansione globale motivata soltanto da preoccupazioni puramente economiche trascurando il rispetto dovuto alla natura oggetto di manipolazioni in contraddizione con una umanità che si pretenderebbe di aiutare. Poi c’è la comunicazione che rappresenta la finzione per un necessario corso di mondializzazione che annulla le varie culture e la loro diversità-identità, nell’utopia di una modernizzazione verso il futuro.

Per migliaia di anni le popolazioni sono entrate in contatto attraverso un solo modo: le guerre. Oggi c’è una seconda via di contatto che è il viaggiare sia esso per turismo o per affari o per altro, e poi il disperato evento delle migrazioni dimenticando la chiave dell’apertura verso altri popoli con la dovuta accortezza. Tanto che non tutto il nostro dramma umano vissuto può essere riferito a un pipistrello ma alla complessità ecologica in generale tra cui, ad esempio, anche l’uso di pesticidi, che sono stati trovati in alcuni alimenti che compriamo al supermercato, con l’incognita di ritrovarci in quell’immagine della primavera silenziosa svuotata dal canto degli uccelli e dal ronzare degli insetti descritta da Rachel Carlson.

Pierre Teilhard de Chardin – geologo e paleontologo – interpretò la globalizzazione in un tempo in cui non era neanche all’orizzonte; eppure è da considerare come il più attuale dei pensieri su quest’argomento riferendosi a popoli giunti a un tale grado sia di contatto periferico sia di interdipendenza economica sia di comunione psichica che essi non possono più crescere che interpenetrandosi e che definisce come planetizzazione.

Agli inizi del secolo scorso i termini in uso erano “internazionale” e “mondiale”, poi l’affermazione dei sistemi capitalisti occidentali ad opera di quegli “uomini senza patria” – così definiti dal filosofo scozzese Adam Smith già nel Settecento – hanno condotto a quella universalità contemporanea che appunto va sotto il nome di globalizzazione, inconfutabilmente associabile al mercato, a quello delle merci come a quello del lavoro, a quello dei capitali. Ma, soprattutto, va aggiunta la comunanza con la mobilità umana e di specie animali che normalmente mai avremmo incontrato. Pertanto ci sarebbe da mettere un freno ai mercati di fauna viva caratteristici dell’Asia, superando le loro ragioni di tradizioni millenarie perché non sono più distanti ma vicinissimi in questo mondo globalizzato, e se l’Occidente ha rinunciato ad altrettante tradizioni (ricordate, ad esempio, il nostro sanguinaccio a base di sangue di maiale?) non capisco – dicevo – il perché l’Organizzazione Mondiale della Sanità non intervenga, mentre ancora oggi al mercato umido di Wuhan si vendono animali selvatici e così in Africa subsahariana, spesso anche in un commercio illegale. Per ora c’è stato solo un invito, un’esortazione, ma nulla di più per il miglioramento delle norme igieniche, per ridurne i rischi nei mercati alimentari e fermarne la vendita per prevenire l’emergere di nuove malattie, giacché sono la fonte di oltre il 70% di tutte le malattie infettive emergenti negli esseri umani.

La globalizzazione, dunque, è un fenomeno non solo economico che riesce oggi a condizionare anche la politica e a generare battaglie ideologiche spesso viziate da qualunquismo e pressapochismo sconvolgenti, pur a fronte di alcune verità indiscutibili come i cosiddetti paradisi fiscali, la massimizzazione dei profitti, l’eliminazione incontrollabile dei limiti giuridici, l’interrelazione tra sistemi, poi l’origine di una cultura globale soprattutto nei giovani, in una sorta di gigantesca omologazione. Un mercato basato sul libero-scambio che ha fallito sia a livello industriale sia a livello umanitario, sia nella preservazione ecologica con lo sfruttamento incondizionato e spesso criminale delle risorse ambientali come la rovina di interi ecosistemi e il non rispetto delle biodiversità che sono causa anche dei cambiamenti climatici.

Basti richiamare i recenti incendi australiani, i record di caldo, l’invasione di locuste in Kenya, i cieli anneriti dal fumo nel Pacifico nordoccidentale, la furia del ciclone Amphan che si è abbattuto nel 2020 su India e Bangladesh con forti inondazioni, la devastazione in Germania e Belgio con centinaia di vittime per il nubifragio in luglio 2021. E proprio questo 2021, con un inverno troppo mite e siccitoso seguito dalle gelate primaverili, che ha visto un calo nella produzione di miele di circa il 30%. Le difficoltà ambientali, infatti, le hanno messe in pericolo e con esse la biodiversità giacché aiutano il lavoro degli agricoltori con l’impollinazione dei fiori e sono delle sentinelle ambientali insostituibili. Ad esse dobbiamo circa il 70% della fecondazione di tutte le specie vegetali e circa il 35% della produzione globale di cibo. E, secondo Albert Einstein, se scomparissero l’uomo potrebbe sopravvivere appena quattro anni. Non solo. C’è da presumere che se la loro scomparsa dovrà essere compensata con un altro intervento tecnologico ecco che porterà nuovi effetti nocivi. Si viene a creare un circolo vizioso in cui l’intervento dell’essere umano per risolvere una difficoltà molte volte aggrava ulteriormente la situazione se, ad esempio, molti uccelli e insetti si estinguono per i pesticidi tossici creati dalla tecnologia.

La catastrofe del clima deve fermarsi. La giustizia sociale e la salvezza dell’ambiente sono le chiavi per una nuova azione politica, scrive la giornalista e attivista canadese Naomi Klein, documentando le catastrofi in corso e raccogliendo dati spesso scomodi sui fronti delle sventure naturali contemporanee, dalla Grande barriera corallina alla cordigliera delle Ande, ai danni provocati in Porto Rico dall’uragano Maria. Tragedie premonitrici, perché ci mettono in guardia sulle calamità ecologiche che ci aspettano se perdiamo l’ultima possibilità che ci resta per agire e cambiare la direzione del nostro futuro. Per combattere la crisi climatica dobbiamo essere capaci di rinunciare alla cultura consumistica, schiacciata sull’ipocrisia di un eterno presente. Dobbiamo lasciarci alle spalle l’illusione di poter ignorare i danni che la nostra civiltà procura al pianeta, giacché questa sciagura globale non è solo un problema politico: ha a che fare con la nostra immaginazione e con il coraggio di cambiare il sistema che li ha prodotti.

L’impatto dell’uomo ha oggi modificato in modo significativo il 75% dell’ambiente terrestre e circa il 66% di quello marino e messo a rischio di estinzione specie animali e vegetali, con una contaminazione dalle proporzioni più che esagerate. Come anche quella dei cibi e delle falde acquifere ad opera degli scarichi industriali sta provocando l’aumento di malattie tumorali.

L’avanzamento tecnologico è chiaramente qualcosa di molto più vasto di criteri economici misurati in termini di prodotto nazionale lordo, perché progresso e sviluppo sono sinonimi ambivalenti e hanno due narrative differenti, sono fenomeni che per le loro enormi dimensioni in molte occasioni sono fonte di contraccolpi nocivi e sovente sono causa d’ingiustizia, spesso coperte dal farle passare per valori di accrescimento. Com’è avvenuto negli Stati Uniti dove sono stati sottratti oltre dodicimila chilometri quadrati del territorio di Oregon, Stato di Washington e California settentrionale, per privilegiare il comparto industriale e petrolifero a discapito della protezione delle aree naturali in uno smantellamento di impianti legislativi a salvaguardia dell’ambiente faticosamente ottenuti in decenni di conquiste.

Mascherandosi dietro un multiculturalismo di facciata, che è solo la riproposizione infinita di un modello di civiltà globale in cui ora viviamo e che non accetta differenze. Esiste un unico profilo consentito: quello del consumatore sradicato, indistinguibile dagli altri, senza identità né spessore culturale. Per usare le parole di Diego Fusaro, il globalismo si fonda su un’inclusione neutralizzante e “in nome del mercato unificato, opera affinché ogni ente si muti in merce liberamente circolante, senza frontiere politiche e geopolitiche, morali ed etiche, religiose e giuridiche”. In quest’ottica distorta, ogni tradizione è sacrificata sull’altare del finto progresso turbocapitalista, che vuole “non popoli radicati nella loro storia e nella loro terra, né soggettività dall’identità forte e capaci di opporre resistenza, bensì consumatori dall’io minimo e narcisista, con identità liquide, gadgetizzate ed effimere”, ossia acquirenti indistinti cui vendere ovunque la stessa illusione. Come possiamo opporci a quest’imperante “eterofobia?”, si chiede il filosofo. Recuperando e difendendo il valore della nostra identità, che si definisce – spiega – solo nel dialogo con le differenze dell’altro, riappropriandoci delle nostre radici; a rieducarci e rieducare soprattutto i più giovani per un futuro meno indecente di quello che ci vede solo come merce tra le merci.

Nessun potere ha il diritto di sminuire e ancor meno di distruggere il valore dell’uomo soggetto e non oggetto, né un prodotto di mercato, allorquando risulta sempre più evidente che la salute del nostro pianeta è strettamente collegata alla nostra. Oggi l’ideologia della globalizzazione diffonde l’immagine di un mondo della libera circolazione e dove tutti siamo in rete. Ma la realtà è diversa. Una fiducia incondizionata in una trasformazione continua non sempre paga, secondo quanto diceva lo scrittore futurista Filippo Tommaso Marinetti sul progresso che “ha sempre ragione anche quando ha torto”. E cresce il divario fra ricchi e poveri anche in relazione con la natura se i primi inquinano il doppio dei secondi, mentre le tecnologie pur configurando inclusioni comunque esprimono nuove esclusioni che stanno paradossalmente tra i confini superati, dall’aereo che ci trasporta da una città, da un Paese o da un Continente all’altro, dalle autostrade o dai treni ultrarapidi, e già con il desiderio di andare sulla Luna e di avervi un micro-orto per coltivare verdure per le future esplorazioni spaziali come nel progetto “Green Cube”.

Ormai tutti sono stati dappertutto ma l’80% degli spostamenti internazionali riguarda i residenti di soli venti Paesi, ovviamente i più ricchi, che poco si curano dei danni ambientali e sociali arrecati dall’industria delle vacanze alle destinazioni paradisiache di turno. Verificherò qui anche questo aspetto giacché viaggiando nei giusti modi si può contribuire a realizzare un mondo più equo e solidale inteso come conoscenza e consapevolezza di un percorso ecologico. Perché ormai non esiste più il concetto di frontiera tra circolazione e consumo di un pianeta fragile, e con questo – non vorrei essere frainteso – non dico che dobbiamo chiuderci a riccio ma solo di ripensare a un’esigenza necessaria di frontiere per imparare a superarle come fattore determinante per quello stesso progresso giacché “siamo”, ha detto lo scienziato Carlo Rubbia, “su un treno che va a trecento chilometri all’ora, non sappiamo dove ci sta portando e, soprattutto, ci siamo accorti che non c’è il macchinista”. Pertanto, fermo restando la spinta che pure va individuata nella difesa dei diritti umani, il miglioramento materiale deve essere posto – lo ribadisco – a servizio della natura ed è chiaro che questo chiama tutti a un confronto che non può avere solo un significato economico ma opportunità di ancorarlo a finalità morali nell’azzardo di essere sempre più vulnerabili.

Uomini e donne non hanno avuto più diritto di cittadinanza in una società in contraddizione con sé stessa. Così la libertà della verità ha perso il suo significato, la sua memoria, nelle tante ragioni a cercare giustificazioni. È quanto accaduto, in una deriva che non possiamo trascurare. Domani le conseguenze della crisi si faranno più difficili e lo sarà sempre più. Allora il titolo che ho dato potrà sembrare enfatizzante eppure oggi in emergenza sanitaria e umanitaria appare opportuno. “Ecovidicidio”: un neologismo che ho creato per sintetizzare lo stretto legame tra Covid-19 e la distruzione consapevolmente perpetrata della natura (ecocidio), partendo dal prefissoide “eco” in riferimento al vaglio dell’ambiente nella composizione con ecologia, e questo per una discussione sulle inestricabili connessioni con l’economia, l’industrializzazione, le multinazionali, nella possibilità di affrontare  un crimine contro la Terra e, di conseguenza, contro gli esseri umani nel decimare gli ecosistemi.

Un primo passo importante è stato fatto il 9 giugno 2021. Il Senato ha dato il via libera al disegno di legge che prevede l’inserimento nella Carta costituzionale la tutela degli habitat naturali e delle specie animali minacciate. In particolare si chiede la modifica dell’articolo 9 con l’aggiunta del comma in cui si precisa che “la Repubblica promuove lo sviluppo della cultura e la ricerca scientifica e tecnica. Tutela il paesaggio e il patrimonio artistico della Nazione. Tutela l’ambiente, la biodiversità e gli ecosistemi, anche nell’interesse delle future generazioni. La legge dello Stato disciplina i modi e le forme di tutela degli animali”. Il provvedimento modificherebbe, inoltre, l’articolo 41 della Carta, prevedendo che l’iniziativa economica non possa svolgersi in modo da recare danno alla salute e all’ambiente (oltre ai già previsti sicurezza, libertà e dignità umana), e determina i programmi e i controlli opportuni perché l’attività economica pubblica e privata possa essere indirizzata e coordinata a fini ambientali. Pertanto in questa prospettiva (giurisprudenziale costituzionale), l’ambiente si configura non come mero bene o materia competenziale bensì come valore primario e sistemico. Un passo che se arrivasse al suo iter finale (in quanto costituzionale, avrà bisogno di quattro letture) diverrebbe epocale, ma sappiamo di interessi in gioco (ci sono già astensioni alla sua votazione) e di lungaggini che ne acerberanno il cammino. Staremo a vedere ma già il fatto che nessuno o quasi ne parla la dice lunga.

Il biologo Charles Darwin con i suoi studi e le sue scoperte ha innalzato il valore della natura come parte indispensabile del nostro pianeta in una prima sistematica interpretazione degli equilibri e la nascita del concetto scientifico di modificazione ambientale. Nella sua opera “L’origine della specie” ha analizzato l’importanza dell’evoluzione nella coesistenza e l’adattamento in una rete di rapporti complessi dimostrando che è l’uomo ad avere necessità della natura e non il contrario. È tempo, quindi, di pensare ad alternative per la difesa in un distanziamento, là dove necessario, perché non basta nascondersi dietro una mascherina se, ad esempio, l’Italia è il primo paese europeo per morti premature da biossido di azoto e nel gruppo di quelli che sforano sistematicamente i limiti di legge per i principali inquinanti atmosferici. Un monito per stare dentro al divenire della storia affinché non rimangano postulati astratti o esperienze elitarie, giacché la situazione preoccupa anche se l’uomo di oggi non vuole essere inquietato ma lo è stato, vittima dell’inefficienza degli ultimi cinquant’anni.

Andrea Barretta, “Ecovidicidio: la lezione del Covid per una conversione ecologica”

Edizioni Compagnia della Stampa Massetti Rodella Editori.

Acquistabile con consegna a casa sul sito dell’editore.

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