Cercare qualcosa in cui rinnovarsi oltre quel modello tecnocratico di pensiero che non tiene conto dell’individualità, cui viene dato solo un piatto di lenticchie.
Chiedo se c’è un solo minuto, uno solo, un solo minuto in cui, non dico l’Europa intera, ma la sola Italia, una sola regione, una sola città, che si fermasse idealmente per ritrovarci tutti accomunati in un solo pensiero, un solo motivo per cui poter dire che siamo stati insieme un solo minuto. Uno solo. Un solo minuto. Uno solo che sia condivisione totale. Un solo minuto, per indossare il vestito della festa che non sia maschera.
Non c’è, e lo sappiamo. Rilevo da giornalista, a volte con amara ironia, fatti che lo scrittore coglie in aspetti non secondari, attimi e impressioni che sfuggono ai più, e li trasmette in forma nuova, a scoprire storie che non sono degli altri ma le nostre. Parole necessarie per descrivere la realtà di una cultura postmoderna dell’effimero, con l’intento di incidere per il desiderio di cambiare nel combattere la disumanizzazione in atto. Interrogare le coscienze, senza omettere o tralasciare il peso di un conflitto sociale profondo, di politiche che hanno portato a una inaccettabile condizione di povertà in tutti i sensi: materiale, spirituale e civile. Ciò nondimeno l’uomo plaude al potente di turno, l’applaude, e ne resta esaltato nel condannare sempre qualcun altro, convinto di vivere una vita senza accorgersi che ha smesso di guardarsi intorno, falsato dalla presunzione che non incontrerebbe nulla di più importante di sé stesso.
È necessario, quindi, percorrere tracce di memoria nell’urgenza di annullare la pressione crescente all’abbandono della solidarietà a fronte di tensioni nei rapporti tra uomo e uomo. Non solo. Da alcuni dati possiamo trarre la certezza di un progressivo impoverimento anche culturale nell’essere scippati della nostra umanità in un depauperamento che dissangua il futuro, che calpesta sogni e ideali dei giovani ormai incapaci di sollecitare, se non agitare in uno spirito culturale rivoluzionario, la storia. E nel vortice di tutto e nulla cambia, nella dicotomia che obnubila, la singolarità è che sono proprio i giovani sono i nuovi “poveri”, configurati in una società civile che crea emarginazione e vittime di un sistema che difende esclusivamente benefici personali.
Assistiamo a scandali su scandali, a imprese “onorevoli” che lasciano increduli, a una mancanza di rispetto generale, per le regole collettive e del senso della lealtà, mentre i giovani si preparano alla vita senza un’attività soddisfacente alle loro aspirazioni, arrabbiati con il mondo intero. Perché è come un gatto che si morde la coda: un andamento formativo che si avvia nella famiglia e nella società, e che però abbisogna dell’apporto della scuola che in molti casi non c’è, per cercare qualcosa in cui rinnovarsi oltre quel modello tecnocratico di pensiero che non tiene conto dell’individualità, cui viene dato solo un piatto di lenticchie.
Fino a scoprire che l’attesa non è assenza, ma un modo di sentire la vita; è ironia, è divertimento ma anche tragedia se non si rifiuta l’impulso a diventare altro da sé entrando in una vita senza mai conoscerla, anche quando inevitabilmente porta con sé inquietudini e preoccupazioni sempre se impariamo a nutrirci di cultura e non a sopravvivere. Ciò nonostante se ci sentiamo persi nel mal di vivere, nelle preoccupazioni della vita, soprattutto oggi con una crisi economica e sociale che colpisce nella perdita del lavoro e inghiotte nel buco nero del suicidio, cosa fare? Perché quando non si riesce a provvedere ai bisogni della famiglia, a non arrivare a “fine mese”, la situazione si complica.
Magra consolazione se stiamo al filosofo Kierkegaard e ai suoi scritti in cui ci ricorda che “per un vero cristiano è impossibile diventare qualcosa di grande nel mondo”, soprattutto se la soluzione – sbagliata – è di fuggire da sé stessi e di fronte alle vicende umane e di travestirci da clown dal sorriso pitturato per sembrare felici. Così, questo mio dialogo si struttura, nell’amalgamare pensieri elicitati al fine di condensare la memoria e proporre un’analisi critica, intorno a parole come “tempo” e “gratuità” di cui si sono perdute ogni nozione di significato, oppure a tre verbi che hanno per oggetto il senso di abitare, di custodire, di vivere, nell’insicurezza che preme sui valori e influenza la vita.
Pertanto, il cardine della responsabilità morale risucchiato dall’era del consumismo sembra avere una sola possibilità per “salvarsi”, ed è quella di convivere con un’anormalità che è diventata la normalità, ormai segno distintivo dell’uomo moderno. Non la logica del criterio di giustizia sociale, nella verifica di strade che s’incrociano e indicano direzioni diverse, ma l’inconsapevolezza che la vita ci appartiene come risorsa tra mente e spirito, e non ha mai fine trovare opportunità. Almeno nell’allontanarsi da una disonestà vergognosa che non trova freno, che si assolve più che condannare, con un’attenzione debole e fuorviante nello smarrimento totale che pone da una parte il colmo della potenza e dall’altra tutta la fiacchezza della miseria.
Ebbene, non passiamo oltre davanti all’uomo derubato e percosso, e avvediamoci della condizione di un Lazzaro contemporaneo che muore di fame davanti alla porta dei palazzi del potere, perché gli indifferenti saranno vomitati dalla bocca di Dio. Spalanchiamo le porte chiuse a evitare l’incontro con l’altro, ai bisogni della gente, e se ci accorgiamo che siamo incapaci di guardare con piena cognizione, ebbene siamo malati d’impassibilità in una società che ha perso il senso di ciò che sta attorno, la misura di quanto accade. E anche se scottati nella sconfitta, non dobbiamo abituarci alla rinuncia, per dare alle nuove generazioni la possibilità della semina in un buon campo.
L’uomo, dunque, si perde nella modernità di un mondo senza regole, chiuso in un egoismo che si specchia nell’io inteso come spazio che nega la capacità di ragionare in modo razionale, fino al momento di rottura e di crisi, fino a cedere all’immaterialismo, allo spiritualismo spicciolo, all’idealismo indefinito, senza l’assunzione dell’incombenza delle proprie scelte. E come farlo in autonomia se, ad esempio, qualsiasi link, notizia o video postato in rete ha come anteprima una o più pubblicità con messaggi o musiche che anticipano tutto, anche la morte in diretta o qualsiasi violenza … ma prima il dentifricio che sbianca i denti, la pasta che tiene il sugo, l’ultimo modello d’auto o il trailer di un film che farà sembrare irreale la realtà che dopo trenta secondi ritorna. E passano immagini di violenze a cambiare in termini culturali e sociologici le relazioni interpersonali, in casi che colpiscono bambini, adolescenti e le donne, come per la piaga dei femminicidi, su cui bisogna puntare l’attenzione.
Siamo fatti così, diciamo il silenzio. Allora perché siamo giunti a questo punto, facendo prosperare questa falsa quiete come un cancro? Una risposta potrebbe essere in quanto scrive il poeta polacco Czelaw Milosz, perché sono “riusciti a far credere all’uomo che, se vive, è solo per la grazia dei potenti”.
Giornali e televisioni registrano casi che suscitano sconcerto, e la reazione è un senso d’impotenza e di perplessità. Sembra, appunto, che solo oggi sappiamo di forme di comportamento sociale di tipo violento e intenzionale verso le donne, di natura sia fisica che psicologica, oppressiva e vessatoria, o che altrettanto soltanto oggi tentiamo di averne chiaro il significato che si perde nel breve tempo di un telegiornale, fino all’arrivo di altri fatti aberranti o di altre morti in una cronaca sempre più nera.
Il parlarne non basta. È l’agire che manca, il sentirsi vigili mentre le privazioni nella loro complessità a volte si astraggono e combinano l’assurdo di ritrovarsi non in un dibattito culturale ma sul banco degli imputati, intanto che i colpevoli non riconoscono il dovere di una partecipazione alla diffusione dei valori etici, vera linfa del convivere civile. Il come ognuno deve ricercarlo nell’impegno a interrogarsi, per rompere quella cortina di reticenza che tocca un perbenismo strano, che vuole difendere a ogni costo l’indifendibile di un figlio o che ha pudore della sessualità anche quando sono i bambini a esserne coinvolti.
Intanto, siamo distratti dal vivere una politica degli insulti reciproci, della violenza verbale che non dà risposte alla gente, e stiamo come poetiche foglie d’autunno pronte a cadere nelle paure di attentati e della recessione di un’economia che spinge a diventare formiche per necessità.
Mai come ora si sente un bisogno di sicurezza, e mai come ora l’importanza di questa parola è veramente compresa, tanto da essere sballottata di qua e di là, da destra a sinistra passando per il centro e per alleanze trasversali. Tutti, invece, dovremmo ripensare agli errori del passato, a quelli presenti e a quelli che purtroppo continuano. L’Uomo – è dimostrato – non fa tesoro di quanto la storia insegna. Anzi, una parte del mondo è impazzita e l’altra sembra ritrovarsi solo in guerra.
Ora la volontà del rimboccarsi le maniche per ricominciare è sulla bocca di molti ma resta lì e pertanto non serve a far decollare una quotidianità che non arranchi per sentieri tortuosi nel dibattersi in circostanze che lasciano stupefatti, come se si trattasse di leggende metropolitane, come se l’uomo negasse l’essere persona, con una propria dignità, soprattutto di chi è preposto alla cosa pubblica. Un canovaccio, insomma, ancora una volta con tutti i connotati di una commedia all’italiana.
Così le tante cose che non vanno: dalla sanità all’istruzione, dalla magistratura alla giustizia a singhiozzo, dalla corruzione alla collusione. Che dire? Significa che tanto bene non stiamo. Sorge il dubbio che il coinvolgimento privato prevalga su quello pubblico. Come per quelle scuole in cui avanza in modo sibillino, e nel nome di un “multiculturalismo”, l’eliminazione di ogni riferimento a secolari tradizioni culturali italiane ed europee. Ossia “più culture” ma non la nostra. Ecco, a questo non dovrebbe bastare il malcontento dei genitori ma ritirare subito i figli per obbligare al rispetto di tutte le culture, il solo modo per invertire questa deriva che relativizza tutto. E sembra sentire Dante: “Ahi serva Italia di dolore ostello, nave senza nocchiere in gran tempesta, non donna di province, ma bordello!”. È l’ansia di fermare il tempo ma anche la volontà di abbandonarsi al suo fluire, in un viaggio e in una meta dove riconoscersi nell’ipocrisia, dove poter ascoltare le parole di San Giovanni Crisostomo sui “molti che amano nell’anima, ma non porgono le mani”, o quelle di Gregorio di Nissa sulla “moltitudine dei nudi, dei senzatetto … gli stranieri, gli esuli, e ovunque si vedono mani tese a supplicare”.
Oggi si assiste a un ritorno all’analfabetismo inteso come funzionale a un problema educativo perché molta parte dell’apprendimento è fondato sulla televisione, almeno per quanti ritengono utile un talk show, mentre per altri sembrerebbe bastante un tablet, riducendo la capacità di lettura e scrittura, quest’ultima delegata a brevi messaggi via sms o wathsapp, e in un linguaggio mediatico in cui già le e-mailsono diventate impegnative e quasi soppiantate già quasi come per le lettere.
Tutto ciò non è collegabile solo a povertà o disoccupazione, ma a un fenomeno di post analfabeti determinati dal paradosso di una dimensione digitale che sembrerebbe dover dare una possibilità maggiore di orientamento nella società contemporanea, mentre non è così, tant’è che si allontanano dalla res publica adducendo motivi di scarso peso nella propria vita, persi nella tecnologia come dipendenza. Fra tutti, però, il peggior analfabeta, affermava Bertolt Brecht, “è l’analfabeta politico” che noi manteniamo. Egli non sente, né quel che avviene intorno lo riguarda. “Egli non sa che il costo della vita, il prezzo dei fagioli, del pesce, della farina, dell’affitto, delle scarpe e delle medicine, dipendono dalle decisioni politiche. L’analfabeta politico è talmente somaro che si inorgoglisce e si gonfia il petto nel dire che odia la politica. Non sa, l’imbecille, che dalla sua ignoranza politica nasce la prostituta, il minore abbandonato, il rapinatore e il peggiore di tutti i banditi, che è il politico disonesto, il mafioso, il corrotto, il lacchè delle imprese nazionali e multinazionali”, conclude Brecht. E si vive il paradosso della noncuranza verso fatti cruenti, mentre si tende alla commozione davanti a scene di film, dove si dice – affermava Andy Warhol – che “le cose accadono in modo irreale, ma a dire il vero è nella vita che accadono in modo irreale. Nei film le emozioni sembrano vere e potenti, mentre quando la stessa cosa accade per davvero è come guardare la tv: non provi niente”.
Infatti, tutt’al più restiamo con lo sguardo incredulo mentre dovremmo interrogarci su cosa sta succedendo, su responsabilità che ormai non sappiamo più distribuire nel caos della dimenticanza. Siamo tutti coinvolti nello scoprire un’estrema fragilità nel considerare un uomo periferia di un altro uomo, e prevalgono i “muri”, e l’estraneità in una integrazione che risente di una crisi di metodo che tende a modificare piuttosto che a marcare radici. Come per “Il diavolo nel campanile” di Edgar Allan Poe, allorquando in un paese con una quotidianità abitudinaria a un tratto arriva uno straniero e gli abitanti vanno nel panico, e tutto cambia nei loro schemi fissi e ripetitivi che fanno vedere l’altro come un intruso, come il diavolo. Per questo, non ci accorgiamo che siamo anche noi italiani ad avere già sul petto l’insegna di “indesiderati”. Noi, periferia del potere, siamo allo stremo perché ci sarà sempre qualcuno o qualcosa che è periferia rispetto ad altri in uno scontro tra poveri. Così, in un’analisi di ragioni plausibili, potremmo pensare a quel mal d’essere che risiede nella particolarità dell’antitaliano come vizio del nostro carattere, dalle radici indistruttibili nell’auto commiserarsi, nel discuterne al bar, e scaricare sempre sugli altri ogni situazione nel sentirsi incolpevoli.
Il fare concreto, invero, le motivazioni, e quanto è di natura culturale, sono il sale di una generazione che appena ci precede e sono fattori positivi decisivi per modellare un futuro giusto, sano, aperto al contributo di tutti. Questo, speriamo, avvenga quando lasceremo inevitabilmente spazio ai giovani che, a dire il vero, non sembrano neanche tanto scalpitare, la prendono un poco alla larga, perché si ritirano demoralizzati.
Certo, gli ultimi avvenimenti non concorrono a un auspicio fiducioso, così ottimista. Cambiano i principi che generano diversità, tanto che gli obiettivi di vita sono spesso un “tutto e subito”, un impoverimento dell’essere per apparire, dell’evasione ludica nello “sballo”, di relazioni in un dialogo che non sempre c’è, mentre molti intellettuali sono assenti di fronte a quello che sta succedendo. Soprattutto alla luce di una sorta di feudalesimo culturale nel non risvegliare la coscienza pubblica, nel favorire l’egoismo. Ciò nondimeno, nulla viene neanche dalle giornate commemorative, ossia le tante Giornate mondiali e da quelle internazionali: ne ho contate centodiciotto. Tra cui, e soprattutto, per quanto qui argomento: per i diritti umani, per la pace, per le migrazioni, per la vita, per la giustizia sociale, per la donna, per l’acqua, per la gioventù, per la salute, per la famiglia, per l’ambiente, per i bambini vittime di aggressioni, per combattere la desertificazione e la siccità, per lo sradicamento delle povertà, per il disarmo, per l’abolizione della schiavitù, contro la corruzione, per la solidarietà umana, … Ecco, pur nella bontà degli intenti delle organizzazione che le promuovono, c’è da esserne sorpresi perché alla resa dei fatti si rivelano fallimentari rispetto alla sensibilizzazione per cui sono nate.
Sotto questo profilo, abbastanza complesso, si presenta l’idea di un intervento, di collaborare tutti per risoluzioni radicali, per un aiuto concreto che sia certezza di risultato, di un’azione propositiva soprattutto come occasione di rinascita interiore, tenendo conto del contesto generale della vita, nei motivi per cui è importante offrire indicazioni tangibili per nuove prospettive nella fiducia reciproca, nonostante un cammino fatto di ostacoli. Per salvare Abele, se a fermare la mano di Caino sarà chi ha nel cuore perdono ma anche giustizia.