Il Novecento ha svelato tutti i suoi segreti, nell’arte, nella letteratura e nella storia dell’umanità nella sua catastrofe in avvenimenti strazianti, ma l’arte contemporanea non rivela ancora una definizione plausibile, sicura, tanto da entrare in una storicizzazione. C’è tutto e il più di tutto, c’è il dubbio. E in questa surreale incertezza attiviamo la “novità” ad ogni costo e riportiamo alle “mode” tutto l’insieme di un accontentarsi fatto d’indeterminatezze che vanno a sostituire l’arte stessa.
Anche della datazione del “nuovo” non abbiamo cognizione con sicurezza, ma sappiamo che la “novità” non ha alcuna utilità pratica (se non commerciale) ed è una trovata dell’uomo creata a suo stesso vantaggio, forse per liberarsi dal porre problemi maggiori ed esorcizzare un’incapacità di vivere.
I primi “movimenti” legati all’arte moderna hanno rappresentato la rinuncia al passato e l’apertura alla sperimentazione con caratteristiche determinanti che hanno lasciato tracce profonde, nel radicamento oltre il dipinto, e tra gli anni Cinquanta e Sessanta le arti si sono completamente trasformate con agganci globalizzanti. E diverse le tendenze fondamentali del primo Novecento, in un connubio che approda negli anni Settanta nel verificarsi di altri sostanziali mutamenti fino – per molti e non per tutti – all’attuale contesto.
Si è configurata una mancanza di coesione. E, ancora una volta, la direzione dell’arte prende altre strade per una nuova contemporaneità. L’aspetto è sì un andare ancora per declinazioni dall’America all’Europa ma oggi riconducibili a convergenze in una fase di mutazione artistica che considera il contenuto un’operazione non più da conciliare con i modi della pittura. È, in sintesi, l’emergere di propositi senza più la domanda che ha pervaso gli anni Cinquanta: “Qual è il ruolo sociale dell’artista e dell’arte?”.
Uno dei pochi punti di accordo è l’idea di un’esperienza totale che ha però portato alla crisi della pittura e della scultura, quest’ultima fino allora vista come manufatto di marmo o fusione in bronzo. E sebbene gli artisti oggi abbiano introdotto altri elementi, il loro tentativo non ha prodotto altro che l’instaurazione di un rifiuto dell’arte per rappresentare visioni lontane da ogni carattere estetico, ossia si smaterializza l’oggetto arte per ridurlo a un’idea commerciabile. E mi riferisco a quell’arte togata da milioni di euro e di dollari, con artisti giunti nei musei e nelle grandi collezioni, sorretti dal mercato del concettuale. Mentre altri artisti sinceri e bravi arrancano nell’ignoranza del mercato.
L’esperienza individuale, così, priva di una diversità espressiva ha fornito alle nuove generazioni una ricerca transculturale di abilità e di furbizie più che di talento, epigoni in un mondo dominato da una realtà artificiale, da mostre come segno d’identificazione di una contemporaneità modellata da fiere che si sono moltiplicate. Immagini da manipolare in una strategia mirata come simulazione di autenticità, senza cambiarne l’essenza nel sondarne i confini e i limiti. Innegabile, infatti, l’impatto emozionale – e scenografico – nell’annullare ogni possibile residuo di padronanza artistica, di coerenza stilistica, e siamo in una transizione da cui non si vede alcuna uscita o, meglio, nessun arrivo.
In tal guisa il mito multidisciplinare dell’autodefinizione termina il suo percorso e provoca l’allontanamento dal criterio della bellezza e ne sancisce la decadenza. Sono stati messi in subordine i temi iconografici, gli elementi di conoscenza, a originare un’arte speculativa che sta dando luogo, più che a un nuovo stile, a una sorta di gioco della citazione, spesso ironico e spregiudicato, in cui è abolita ogni residua distinzione tra contenuto e creazione artistica.
“In effetti l’artista che ha lasciato l’arte dietro di sé o – il che fa lo stesso – considera arte tutto quello che fa, non è che una manifestazione della crisi profonda che ha investito le arti del nostro tempo. La pittura, la scultura, il teatro, la musica, sono state sottoposte a un processo di sdefinizione. La natura dell’arte si è fatta incerta, o, quanto meno, ambigua. Nessuno può dire con certezza che cosa sia o, quel che più conta, che cosa non sia un’opera d’arte. Dove è presente un oggetto d’arte, come nella pittura, si tratta di ciò che ho definito un oggetto ansioso. Non si sa se è un capolavoro o una porcheria”, lo ha scritto il critico d’arte statunitense Harold Rosenberg.
Dalla fine del Novecento predomina un anti-intellettualismo che avvera una “anti arte” dedita al mercato, tra giustapposizioni enigmatiche e semplicistiche posizioni di dissenso a creare il caos. Come in un normale andare e ritornare a enunciazioni e prese di posizione, a volgere lo sguardo a una forma espressiva di un’arte sorretta dalla parola che rinunciando a estetica e canoni non fa altro che andare verso il brutto e l’inutile. Così la mancanza di voci ufficiali e coerenti – oltre una prospettiva decentralizzata dal potere mediatico – che non favorisce il crescente interesse per più forme oggettuali fa sì che, di fatto, mischiando archetipi e simbologie da decifrare, non produce progresso ma un cavallo di Troia. Gente – non posso definirli artisti – che sono arrivati in gallerie, musei e istituzioni portati da mercanti d’arte, direttori e politici per minare all’interno la bellezza; giunti dentro le mura che per secoli ne avevano conservato l’identità, e di notte – perché il silenzio degli intellettuali è assordante – hanno portato la distruzione ….
Nel nostro caso, dell’arte. Tanto che la nuova narrazione all’inizio del Duemila subisce inevitabilmente esempi sterili d’inventiva, proiettando l’arte nello spazio di tecniche eterogenee e non nella sua definizione, con atteggiamenti strambi e opere orrende nel sovvertire un repertorio di apparenze inteso come libertà di escogitare piuttosto che di concepire. Eppure, lo ripeto, ci sono tantissimi artisti che vanno avanti nel loro lavoro creativo ma che non riescono a raggiungere la notorietà.
Fiere e scenografie in esperienze simbiotiche incautamente scambiate per opere d’arte. E così pure le “performance” e le installazioni. Cosa sono? È presto detto. Pensate di trovarvi in una platea per assistere a uno spettacolo, e davanti a voi il palco su cui si muovono gli attori. Ora avete una scelta. Prendete la scena con annessi e connessi, trasportate tutto in una galleria d’arte abbastanza capiente, oppure in un museo che ne diventa il contenitore “site specific” (oggi si dice così, da esterofili incalliti, insieme ai vernissage, alle preview, agli open e opening, alle exibition e contact) ed ecco l’installazione o la performance se avete portato con voi gli interpreti … ma questo è teatro. Sempre un arte, direte, ma non è arte visiva. Se poi intervenite nell’azione allora siete in un “happening”, cioè ancora nulla di nuovo: già si facevano con Allan Kaprow, nel 1958, che per la prima volta rende complice il pubblico.
Propedeutico sembra essere stato il manifesto dell’Hotel Chelsea di Yves Klein pubblicato nel catalogo di una sua mostra del 1961: “Stabilito che per quindici anni ho dipinto monocromi. Stabilito che ho creato delle situazioni di pittura immateriale. Stabilito che ho manipolato le forze del vuoto. Stabilito che ho scolpito il fuoco e l’acqua e dal fuoco e dall’acqua ho tratto dipinti. Stabilito che ho usato pennelli vivi per dipingere, cioè il corpo nudo di modelle vive spalmato di colore, e con questi pennelli vivi costantemente ai miei ordini tipo – un po’ più a destra, e ora verso sinistra, di nuovo un po’ a destra -, ecc. ho risolto così il problema del distacco dall’opera nel mantenere una distanza fissa obbligatoria dalla superficie del dipingere. (…) Stabilito che fra innumerevoli altre avventure ho raccolto il precipitato di un teatro del vuoto, quindici anni fa, all’epoca delle mie prime ricerche, non avrei mai creduto che un giorno, improvvisamente, avrei provato la necessità di soddisfare il vostro desiderio di sapere e il perché e il per come di ciò che sta accadendo, e che mi preoccupa in particolare, l’influenza della mia arte sulle giovani generazioni d’artisti oggi nel mondo. (…) Tutto ciò che posso dire è che oggi non mi sento più spaventato come un tempo, nel trovarmi di fronte al pensiero del futuro (…)”.
Concludo. Altre ragioni di fare arte. Ed è giusto così ma fino a un certo punto. In una creatività odierna che purtroppo vive nella finzione di sé stessa, che usa strumenti fenomenici variabili e resta assente nella manipolazione dell’appropriazione, per cui rifacimenti rigenerati, e sciocchezze varie, sostituiscono l’esperienza diretta di far nascere altro. Sono tornate le trasgressioni che ora le chiamano provocazioni, ne sintetizza ideologicamente la coesione esistenziale in una contaminazione reciproca e legittimante di un nuovo con l’abito logoro, ovvero del vecchio che arranca, stanco, in una sorta di malinconia infantile.
“Per me l’arte moderna non è altro che l’espressione degli ideali dell’epoca in cui viviamo”, affermava Pollock. Ecco … e se oggi viviamo un’epoca corrotta non ci si può aspettare altro.