Un libro di Andrea Barretta. C’è l’urgenza di contributi critici che indichino un percorso nell’estetica che non sia un pregiudizio ma una possibilità ancora indispensabile, tanto che l’idea di queste pagine tende a ritrovare quanto può saziare nell’arte che invita alla riflessione per denotare la creatività che non si perde nella bruttezza di un concettuale ormai causa dei tanti mali che affligge l’arte contemporanea.
Un libro del critico d’arte e scrittore Andrea Barretta: “Arte Duemila” (240 pagine, Edizioni Edistorie), dedicato all’arte contemporanea vista attraverso dodici artisti. Il libro si può acquistare online sul sito dell’editore cliccando qui: https://edistorie.it/prodotto/arte-duemila/
Il critico d’arte Andrea Barretta ha scelto dodici artisti ad aprire un orizzonte all’arte italiana in eterogenei percorsi artistici, nell’esercizio di linguaggi a costruire una mia sintassi critica che ho curato per loro mostre o cataloghi in questi ultimi anni. E la dinamica sta proprio nelle diverse esperienze che qui vanno a convogliarsi, ognuno con uno spazio dedicato, e per me nel presentarli come documentazione per un’arte ancora possibile in una contemporaneità rivolta a tutt’altro.
Un denominatore comune è il colore. Quello che – sosteneva Matisse – “forse ancor più del disegno, è una liberazione”, e come dargli torto in una specifica prevalenza oltre al suo valore nel fornire impronte che conducono in una relazione con l’incorporeità e l’esistenza stessa, sviluppate in un’evoluzione nei diversi ambiti. Così come sono riconosciuti i significati simbolici della parvenza rispetto alla configurazione nell’espressività che rappresenta l’intuizione e la curiosità, l’archetipo dell’arte che si perpetua da secoli e che guardiamo a scandire i momenti di un’arte sincera. Pertanto vorrei, come per una letteratura odeporica, iniziare con voi lettori un cammino che non sia solo memoria ma uno straordinario percorso nella bellezza che aiuta a vivere meglio. Perché l’arte, è bene ripeterlo, è gratuità, e non c’è bisogno di un lampo di genio per interrogarla.
“Arte Duemila”, quindi, propone osservazioni differenti della tangibilità ma con stili riconducibili a dimostrare una capacità aggregante, fino a evocare una forza comunicativa di grande suggestione, in un cammino che, pur andando dal figurativo all’astrazione e all’informale, crea un rapporto per mezzo della forma che sulla tavolozza trova il suo collante, nell’equilibrio cromatico e compositivo che s’apre alla sorpresa dello svelare, così come per l’incisione nel suo fascino intramontabile, ossia la celebrazione vivibile là dove converge nell’arte che declama la sua identità, che è il senso di questo libro.
Artisti che condividono l’interesse comune a dare importanza alla loro attività non come mestiere ma per far emergere la visione di una produzione in chiave intimista. Un viaggio nelle arti, dunque, come itinerario in un compendio da cui trarre spunto in una sorta di richiamo per esorcizzarne i mali prodotti dall’uomo in un’epoca che tutto distrugge, anche l’arte. Quasi a cogliere il nostro vivere, e andare verso l’oggi che è già domani, voltando pagina e allargando il proprio punto di vista in agglomerate emanazioni di luce e guizzi sinuosi, in una impaginazione semantica da cui discendono elementi anelanti.
Un’indagine di tendenze che comunque hanno guardato a preludi riconducibili a narrative che non trascurano la verità di poter intervenire sulla realtà, qui vista non solo come immagine ma come occhio del corpo.
Raffronti di appartenenza in una coesione nella poetica del vero non mistificato, per opere ricche d’ispirazione che svelano sentieri inaspettati nella definizione individuale, e documentano tappe che caratterizzano un momento pieno di mutamenti, che – per alcuni – Barretta ha raccontato e descritto nelle loro monografie edite dalla “Galleria ab/arte” di Brescia, conservate al Metropolitan Museum di New York e in importanti biblioteche oltre ad essere state alla Fiera internazionale del Libro di Francoforte.
Sono i principi di una diversa antropologia cui guarda la cultura che pure muove le sue possibilità d’intenti, per fugare l’enigmaticità di alterazioni metamorfiche, nei suggerimenti di un’arte colta, che non disdegna l’immaginifico e non dimentica quanto è possibile comunicare con chi non ha voce per superare il silenzio. Così, “Arte Duemila” apre dimensioni capaci di percezioni stilistiche in un luogo dove emergono altre vie, per tradurre la meraviglia dell’arte intesa come teofania di una contemporaneità che lacera arcaiche illusioni in una storia in fuga, almeno per il compito dell’arte stessa che dovrebbe essere quello di risvegliare la coscienza del mondo.
A emergere è l’essenziale in opere che cedono il passo a testimoniare il vigore nel carattere che incontra i valori della superficie e quelli del volume. Il punto focale è allora lo spazio visivo in cui la raffigurazione sta in un’appropriazione reciproca che possa riconoscere e accertare l’evoluzione. Ed ecco che all’interno di questo contesto così variegato, personale ma pienamente accessibile, troviamo la sinergia che conduce alla manifestazione di un’epifania creatrice, come forza nell’originalità e, soprattutto, dell’ascolto che si fa consapevolezza, perché il bello da cogliere è principalmente in noi, nel fine che è quello di stimolare l’universalità di mediare tra quanto osserviamo e quanto riceviamo.
Per accedere all’arte, dunque. Per raccontarla nell’intellettuale fuoco che divora come chiarore nell’infinito che si rinnova in questi artisti. Certo, precisa l’autore, la ricognizione andrebbe fatta anche per immagini ma per ognuno di loro rimando ai propri siti internet dove troverete le opere da osservare. Fermo restando che l’arte va vista dal vero e pertanto vi invito ad andare nei loro studi, sicuro di una buona accoglienza.
E c’è un altro aspetto di questo libro. Pur distratti da attuali iconografiche introspezioni, provate ad avvicinarvi a questi artisti per capire come possiamo dissipare l’attuale cannibalismo che contrassegna l’artefatto come oggetto estetico che in sé e per sé non è arte e non dà alcun coinvolgimento, giacché certa parte dell’arte contemporanea si è isolata nel farsi celebrare nell’effimero, nell’interesse dei soliti pochi eletti che fanno parte del mercato inteso in senso negativo, e che invece qui si palesa altrimenti nella sua impronta che nutre, in una resa di temi che dovrebbe essere l’ordinarietà.
Un archivio, allora. Anche. A rimembrare il successo di questi artisti, perché l’arte è una cosa seria e non deve essere dimenticata, e vuole un pubblico che non sia estraneo alla bellezza, né all’osmosi tra intenzione e realizzazione, tra quello che sentiamo e quello che vediamo. Infatti, quello che resta è la sostanza, ed è questa differenza a essere davvero arte. È questo distinguo che fa un bravo artista o lo relega in una delle tante stelle cadenti. È questo discernere che dà l’esempio di perfezione che si manifesta nel brivido che si prova davanti a tele o incisioni che resistono al tempo.
L’ultimo scopo, dunque, trova un’altra ragione d’essere non tanto nel provare a sbrogliare l’appiattimento rinunciatario incapace della rinascita, nell’interrogare e dare ragione a un’arte che non sia anti arte. Perché siamo noi a dover pretendere la bellezza. Cercarla come un piccolo seme da accudire. Un segnale per non rassegnarsi, sensibili al mistero nei silenzi dove il buio interpella ma fa brillare una luce a illuminare il nostro desiderio d’arte, che in alcuni casi sembra quasi essere persino un rifiuto se a essere osannato è il suo opposto.
Per rintracciare la bellezza in cui l’improbabile diventa plausibile; per ghermirla in un santuario dell’incontro e per assimilarne la forma intellettuale. Perché questi artisti da me scelti sanno bene che, come asseriva Rothko, “un quadro non riguarda un’esperienza, è una esperienza”, e pertanto hanno la consapevolezza di produrre arte, che diventa straordinarietà nel definirla con un metodo d’osservazione, nel provare a sbrogliare quanto non merita neanche di essere capito giacché è soltanto un’arte sorretta dalla parola e oltre c’è il nulla.
Perché il terzo millennio è arrivato in modo chiaroscurale, privo di un nuovo linguaggio artistico con opere di epigoni che si rifanno ad anni di ideali infranti e di ambigui contributi interpretativi, quando non letture superficiali, a iniziare dall’adoperare l’opera d’arte come soggetto oggettivato che annulla e non carica più la ribellione. Allora solo se voleremo alto potrà capitare d’imbatterci in chi ritrova la strada da preparare per quelli che seguiranno. Simone Weil, che nella sua breve esistenza ha esplorato la morale, scrive nei suoi quaderni il continuo riferimento alla bellezza quale sigillo del bene e precisa che “senza ostacoli inevitabili l’arte stessa sarebbe ricondotta a un puro gioco”. Mentre il teologo Hans Urs von Balthasar, di cui è nota la sensibilità verso quest’argomento che ne ha caratterizzato il pensiero, ha descritto “l’ultima parola che l’intelletto pensante può osare di pronunciare, perché essa non fa altro che incoronare, quale aureola di splendore inafferrabile, il duplice astro del vero e del bene e il loro indissolubile rapporto”, e quest’ultima parola “è la bellezza disinteressata senza la quale il vecchio mondo era incapace di intendersi, ma che ha preso congedo in punta di piedi dal moderno mondo degli interessi, per abbandonarlo alla sua cupidità e alla sua tristezza”.
Un fatto che divide molto e ha creato divergenze, in una metodologia che non corrisponde a canoni e ad attribuzioni stilistiche. Tuttavia proprio questa non arte potrebbe essere la goccia che fa traboccare il vaso, estremo strumento di resistenza, rimedio per non perderci in ciò che è dietrola demistificazione prevalentemente di teorici che reggono le sorti della cultura e bloccano ogni azione necessaria. E molti non conoscono il lavoro dell’artista che è totale, e per questo nelle pagine che seguono ne scrivo ampiamente, perché è riportare il loro atti creativi in una sana ambizione a differenza di ogni altro lavoro, giacché non è la sola soddisfazione economica da cercare ma il riconoscimento nell’attitudine che è frutto di originalità. Innanzitutto l’ispirazione, l’esultanza d’emozionare che ammalia e che porta a fondersi con l’assoluto.
Determinante sarebbe una linea competitiva che abbia quella componente riconoscibile all’interno di nuovi significati, risoluti nella definizione dei contorni che per ora non riescono a raccontare il mondo dell’arte in difficoltà, perché questa bellezza snaturata ha perso valore nel pensare di essere ovunque, mentre è assai rara.
Tanti artisti hanno la forza di provarci, come quelli qui inclusi, non con spavalderia o con spericolatezza, ma con la fermezza di uscire dalla dialettica dell’immobilità, di aprire una meta immaginativa, perché l’arte in ogni sua forma può fornire i dispositivi necessari per la bellezza che pochi trasmettono, molti altri cercano e altri ancora non sanno cos’è. Perché l’impressione è che ci troviamo in corsa e non sappiamo dove stiamo andando, e la condizione dell’uomo contemporaneo è simile a quella di un viaggiatore su un treno che va a trecento chilometri l’ora e si accorge che non c’è il macchinista. Infatti, l’influenza della globalizzazione in un’antropologia su parametri mondiali si estende non solo all’attività economica ma anche alla vita artistica, e non sempre ha conseguito risultati positivi per lo sviluppo della stessa società. È questo ad essere terribilmente limitante nel comprendere che l’arte non è lontananza, bensì un modo di sentire il respiro dell’universo.